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2. L’INTERVENTO PSICOLOGICO IN TERAPIA INTENSIVA PEDIATRICA
E PATOLOGIA NEONATALE
2.1 Definizione, classificazione e dati epidemiologici associati
Il ricovero di un bambino in Terapia Intensiva Pediatrica-Patologia Neonatale, per
l’esordio di una malattia acuta, un difetto genetico, una grave malformazione, una
forma virale importante, un politrauma oppure una patologia a prognosi infausta, ecc.,
è un evento altamente drammatico dagli esiti non sempre prevedibili e che comporta
correlati psicologici importanti sia per il piccolo paziente, sia per i suoi familiari, sia,
infine, per gli operatori che devono produrre un investimento professionale, emotivo
e relazionale particolarmente intenso, in condizioni di urgenza–emergenza. Le condi-
zioni di isolamento, le necessarie manipolazioni finalizzate al raggiungimento della
diagnosi e della terapia, gli esami strumentali spesso invasivi, il dolore, la paura e l’an-
goscia interrompono transitoriamente l’unità naturale genitore-bambino e disturbano
i normali ed istintivi comportamenti di attaccamento del bambino. I genitori dal canto
loro sperimentano vissuti di dolore, di vuoto, disperazione, rabbia; il trauma psico-
logico dovuto alla minaccia per la vita del bambino irrompe nella vita familiare con
un impatto emotivo tale da produrre effetti psicologici devastanti su tutti gli equilibri
precedenti.
Gli operatori, accanto agli aspetti fisico-organici devono impegnarsi anche a mantenere
il più possibile inalterato il rapporto del bambino con i genitori, sviluppare una solida al-
leanza terapeutica e, talora, svolgere anche un importante ruolo sostitutivo delle funzione
genitoriale.
Quando, poi, si prospetta la morte del bambino, l’aiuto dato prima di tutto dai neonatologi,
dagli infermieri e, dove necessario, da un intervento psicologico specialistico consentirà
ai genitori e a tutti i familiari di affrontare il dolore psicologico del lutto evitando che si
creino reazioni di estraneità emotiva che potrebbero sfociare in conseguenze psicopato-
logiche importanti.
In passato tali bisogni erano considerati secondari di fronte all’esigenza di “salvare la
vita del bambino” e gli operatori, non disponendo di strumenti psicologici adeguati hanno
dovuto fare ricorso al “buon senso”, allo “spontaneismo”, alla “umanità” dei singoli, ma
questo ruolo di supplenza non sempre è sufficiente per affrontare le difficoltà che quoti-
dianamente si presentano, basti pensare che nella maggior parte dei casi sono anch’essi
genitori e pertanto soggetti a facili immedesimazioni.
Sta di fatto che, se tali bisogni non vengono riconosciuti, compresi ed accolti da parte de-
gli operatori e rimangono senza risposte, essi producono uno stress emotivo continuativo
che, se trascurato o non risolto, diventa esso stesso fonte di ulteriori problemi che si espri-
mono in comportamenti disfunzionali nella relazione genitori-bambino (disturbi dell’at-
taccamento), nei rapporti familiari-operatori (disturbi della comunicazione e dell’alleanza
terapeutica) e nelle relazioni tra gli stessi operatori configurandosi come un importante
fattore di rischio personale.
All’interno dell’équipe, il forte stress ambientale e relazionale può causare disfunziona-
menti, cali di efficienza, peggioramento della qualità delle relazioni e talvolta veri e propri
disturbi da Burn-out.
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