ALLA RICERCA DELLA SPECIFICITÀ
PSICOLOGICA NEI SERVIZI PER LA SALUTE IN ETÀ EVOLUTIVA.
IDEE E PRASSI, MITI E VISIONI
di Diego Garofalo (Coordinatore Attività Psicologiche
Area T.S.M.R.E.E. Azienda USL Roma-B)
Premessa. Gli attuali
Servizi come contenitori rassicuranti, ma obsoleti
Le riflessioni che seguono riguardano l'operatività
dello psicologo nei Servizi cosiddetti Materno-Infantili delle
ASL (si noti la curiosa denominazione, con l'eclatante
assenza del padre). In verità un Servizio così
unitariamente strutturato non esiste in tutte le regioni, che
vedono i diversi interventi in favore dell'infanzia e
della famiglia afferire a Servizi diversi; e d'altra parte
nella nostra Regione -che l'ha istituito nel 1994, auspicandone
successivamente l'organizzazione in Dipartimento- c'è
ancora qualche Azienda che tale Dipartimento non ha. Non si
tratta di semplice questione organizzativa: c'è
di mezzo una concezione dell'intervento per l'infanzia.
L'organizzazione dipartimentale assicura quel modello
di operatività integrata ed unitaria che è essenziale
per rispondere al complesso ed unitario mondo dell'infanzia,
e per salvaguardare quindi le competenze (conoscenze e abilità)
specificamente sviluppate intorno a questo ciclo di vita, la
cui importanza per l'ulteriore sviluppo personale e sociale
è da tutti riconosciuta. In tale prospettiva non ha senso
scorporare i vari aspetti o segmenti di esso affidandoli ad
altri contenitori generici, quali ad es. l'assistenza
di base, o la riabilitazione, o il Dipartimento di Salute Mentale;
mentre dei servizi specialistici possono e debbono trovare un'adeguata
collocazione interna, ad es. -appunto- un Servizio di psicologia.
Non è un'esagerazione interessata affermare anzi
che tale modello di integrazione operativa per il minore può
diventare il paradigma di ogni psicologo che opera per la salute
ãolistica della persona, da vedere sempre in un'ottica
globale e contestuale al suo effettivo, complessivo, continuativo
processo di sviluppo. Quindi, tanto per sgombrare il campo da
possibili fraintendimenti, il metodo migliore per realizzare
tale intervento è l'interdisciplinarità
e il lavoro d'équipe. Ma la domanda che ci
dobbiamo porre, in questo momento storico, è quanto i
Servizi attualmente costituiti ed effettivamente operanti permettono
la piena estrinsecazione della nostra specifica professionalità
in un contesto operativo caratterizzato dalla predominanza del
modello e della figura medica.
A questo proposito, c'è appunto un altro aspetto
storico che aiuta a spiegare certe resistenze interne alla nostra
categoria ad una integrazione dell'intervento psicologico
nel Dipartimento Materno Infantile. All'interno di questo,
sempre nella Regione Lazio, esistono due Aree che prevedono
l'operatività dello psicologo: l'Area Consultoriale
e l'Area per i disturbi in età evolutiva (ufficialmente
chiamata Area Tutela Salute Mentale e Riabilitazione in Età
Evolutiva, ma in realtà chiamata nei più recenti
documenti nazionali ãsettore di neuropsichiatria infantile).
È significativo che nei testi normativi del Ministero
della Sanità il Consultorio compaia sempre: il fatto
è che esso gode di una legge istitutiva a livello nazionale
ed esiste in tutte le Aziende. Ma può essere altrettanto
significativo rilevare che il Consultorio è nato come
un servizio a forte caratterizzazione sociale, mentre il servizio
per i disturbi in età evolutiva discende dall'istituzione
delle cosiddette Unità Territoriali di Riabilitazione
(per l'handicap) e quindi con una forte caratterizzazione
medica (e con la presenza di neuropsichiatri infantili la cui
competenza si sovrappone per molta parte con quella degli psicologi).
Ora è evidente che lo psicologo consultoriale goda di
maggiore autonomia anche a livello gestionale, ma il problema
è ancora una volta quello di uscire da contenitori rassicuranti
e lottare per servizi con idee forti. Che senso ha dividere
l'intervento per il genitore, la coppia, la famiglia da
quello per il bambino? Tutte le difficoltà del bambino
equivalgono a handicap? Qual è il modo migliore per intervenire,
complessivamente e psicologicamente, sul disagio infantile e
familiare?
Più in generale, l'impressione è che come
psicologi siamo stati finora rassicurati dall'aggancio
ad un modello culturale ed organizzativo dalla forte e ben definita
caratterizzazione medica, pagando inevitabilmente il prezzo
di una visibilità debole, anche per i rapporti di forza
all'interno dei servizi ãsanitari dominati
e governati dai medici, da cui abbiamo mutuato inconsapevolmente
idee, terminologia e persino (per qualcuno) il camice.
Non si tratta ora di lottare contro la visione medica né
tanto meno contro i medici; semmai, dopo quasi trent'anni
di crescita (dall'istituzione di primi Corsi universitari),
è giunta l'ora di lottare per il riconoscimento
della nostra più piena e matura identità. Identità
che è profondamente diversa da quella medica, per il
diverso approccio appunto alla persona e alla salute. Non la
competizione, ma la strategia della differenziazione ci può
portare ad una collaborazione vera e pariteticamente riconosciuta.
È ovvio che, se l'organizzazione sanitaria attuale
non consente l'estrinsecazione di questa diversità,
è ora di pensare ad un'organizzazione diversa.
Cioè -con uno slogan che riflette la nostra maturazione
nell'arco degli ultimi tre decenni- non più la
psicologia nei Servizi, ma Servizi di psicologia unitariamente
integrati negli attuali ãcontenitori dipartimentali,
se proprio si vuole rinunciare alla costituzione di un vero
e proprio Dipartimento di Psicologia. L'autonomia non
significa autarchia. E più rafforziamo la nostra identità
più sentiamo il bisogno di autonomia, che facilita peraltro
la necessaria relazione con tutti gli altri operatori per la
salute.
1. Miti, idee e visioni dell'intervento psicologico per la salute in età evolutiva
Per lavorare bene bisogna avere
buone idee. Bateson dice che molte idee della scienza d'oggi
sono obsolete; per noi psicologi della sanità, che abbiamo
lottato per avere uno status socialmente riconosciuto alla pari
con quello della medicina, molte nostre idee di fondo sembrano
a rimorchio di convinzioni mediche magari leggermente rivisitate.
Dobbiamo rivederle alla radice, se vogliamo cercare la nostra
identità matura. Faccio qualche esempio.
Anzitutto: cos'è la salute, per noi psicologi?
Canguilhem diceva, con una pregnante paradossalità, che
essa è il lusso di potersi ammalare. Quindi essa si fonda
sul diritto (ormai mondialmente riconosciuto) allo stare il
più possibile bene (il ben-essere integralmente considerato).
Lo spostamento è radicale: dall'ottica centrata
sulla malattia (ed un'organizzazione centrata conseguentemente
sugli ospedali) a quella sulla salute (che conseguentemente
dovrebbe vedere lo sviluppo dei servizi territoriali). Forse
è questa nuova ottica che abbiamo paura di esaltare per
paura di perdere quell'autorevolezza scientifica data
alla ãsanità più che alla salute.
Una salute che per noi psicologi ha il suo focus nella soggettività
e nella relazionalità della persona in sviluppo, nella
quale si integrano gli aspetti biologici con quelli psichici,
ma senza egemonie riduttivistiche né confusi eclettismi
(cfr. Gadamer, 1994). Molte persone (forse anche qualche psicologo)
sembrano non credere fino in fondo alle potenzialità
della mente sulla salute dell'intera persona. Salute che,
come l'approccio al bambino insegna (vedi sopra), sta
nel progressivo ed integrale sviluppo della persona in un'autonomia
che ha bisogno di positive relazioni interpersonali e sociali;
uno sviluppo che deve quindi essere sostenuto a tutti i livelli
e in tutti gli ambienti di vita. E questo significa che dobbiamo
trovare un'aggregazione più unitaria nel mondo
della sanità, che ci renda più forti e più
autonomi nel collaborare anche con tutti i soggetti sociali
interessati alla salute, come ad esempio gli Enti Locali e il
Privato Sociale (un modello è fornito dalla legge 285/97,
mentre un aggancio legislativo öfinora, a mio parere, poco
cavalcato da noi- è quell'Area sociosanitaria ad
elevata integrazione sanitaria prevista dal Decreto 229/99).
Questa ricerca di specificità costringe a farci altre
domande correlate. Che senso diamo alla diagnosi? A quale scopo
noi facciamo una diagnosi? Perché ce la chiede lo psichiatra
o il neuropsichiatra infantile che devono dare farmaci, o riempire
cartelle, o fare studi epidemiologici con nosografia universale
e quindi sempre più basata non su visioni cliniche ma
soprattutto comportamentali? Certo pure noi possiamo e dobbiamo
fare questi studi, e curare di più anche la ricerca.
Ma la nostra diagnosi è sempre funzionale a quella data
persona, allo sviluppo delle sue risorse e potenzialità,
e non tanto all'evidenziazione dei suoi deficit. Dobbiamo
saper fare una nostra specifica diagnosi psicologica, che per
l'età evolutiva significa conoscere bene il bambino
nella sua realtà globale, non solo alla luce delle sempre
più raffinate conoscenze scientifiche, ma anche del sui
contesto specifico e socioculturale. Solo se abbiamo un'autonomia
operativa e gestionale forte la nostra diagnosi può contribuire
all'intero processo di sviluppo del bambino, stando alla
pari con la diagnosi e la cura medica, pur nell'indispensabile
collaborazione.
E che senso hanno i ãsintomi nella nostra visione
psicologica? Basti pensare ai bambini che vengono al nostro
Servizio col ãsintomo dell'enuresi, della
fobia di qualcosa, della masturbazione, dell'iperattività,
della depressione. Siamo sicuri che questi termini mutuati dalla
medicina corrispondano a quanto noi ci sforziamo di capire del
bambino? Sono segni di malattia propriamente detta? O di un
disagio, che non dobbiamo comunque ridurre a un ãconcetto
spazzatura? Ma chi si occupa del disagio dei bambini
strombazzato ai quattro venti da tutti i giornali e buono soltanto
(forse) nella campagne politiche? Il sintomo è per noi
un messaggio: chi lo ascolta? come intervenire su di esso? Abbiamo
paura di dover dividere il compito dell'intervento difficile
e complesso con genitori, pedagogisti, sociologi, anziché
con i più blasonati medici? Interrogarci sul senso, sulle
cause, sui possibili rimedi è opera soltanto filosofico-giornalistica?
E che senso ha la cura? Che cos'è per noi la ãguarigione?
In cosa consiste l'aiuto per l'altro? Nell'aiutarlo
a fargli ritrovare l'autonomia del proprio sviluppo, nel
sostenerlo nella capacità di stare meglio con se stesso
e con gli altri. Rileggiamo queste affermazioni: ãNoi
non desideriamo affatto che la psicoanalisi venga inghiottita
dalla medicina e finisca col trovar posto nei trattati di psichiatria,
al capitolo terapia, fra quegli altri procedimenti -come la
suggestione ipnotica, l'auto-suggestione e la persuasione-
che nati dalla nostra ignoranza debbono la loro effimera efficacia
soltanto all'inerzia e alla debolezza delle masse umane.
Essa merita un destino migliore. Chi le scrive è
nientemeno Freud (1926, p.413), il quale lotta per non far diventare
la psicoanalisi branca della medicina appunto perché
non vuole assimilarla a quelle concezioni che addomesticano
le capacità di autonomia e di responsabilità dell'uomo.
Questo è il senso profondo dell'analisi ãlaica
che lui difende come visione della salute sganciata dall'ideologia
medica, aggiungendo infatti subito dopo: ãQuel che vogliamo
fare è arricchire [il paziente], e trarre questa ricchezza
dal suo intimo facendo affluire al suo Io sia le energie che
a causa della rimozione sono relegate nell'inconscio·
sia le energie che l'Io, per poter conservare le rimozioni,
è costretto a dilapidare (ivi, p.421). Non si tratta
di voler curare solo con la psicoanalisi; tutt'altro.
Essa è piuttosto qui citata come simbolo di un approccio
alla salute che insiste sulle capacità autonome e i processi
di autoorganizazione della persona, sul rapporto inscindibile
tra la persona intera e le singole parti, tra l'individuo
e l'ambiente, e sul funzionamento cibernetico di questo
sistema autorganizzativo e relazionale. In questo consiste la
moderna epistemologia della salute ora chiamata ãolistica,
ora ãauto-eco-sistemica, e comunque rispondente
alla prospettiva della ãcomplessità (Bocchi
e Ceruti, 1985; Morin, 1993 e 2001; Ingrosso, 1994; Napolitani,
1993; Bateson, 1976). Per difendere questa nuova visione epistemologica
dobbiamo avere riconosciuta una autonomia che ci permetta di
realizzarla. Con un altro slogan: la psicologia agli psicologi.
Dobbiamo, inoltre, liberarci di ãmiti come l'équipe
multiprofessionale (Sammartano e Xibilia, 2000): nell'operatività
quotidiana essa si carica del potere dei più forti (ed
allora ecco che il medico è il coordinatore dell'équipe,
ecco che ti dice: ãfammi una valutazione, ecc.).
O della mitologia, esistente anche all' interno della
nostra professione, che esalta come unico e valido il proprio
orientamento: dobbiamo saper valorizzare tutte le nostre ãvisioni
dell'uomo, tutti i nostri orientamenti, i nostri metodi,
anche per evitare noi di cadere nel riduttivismo di uno solo.
E dobbiamo avere sogni o ãvisioni. Cioè
lottare per realizzare idee forti, come negli anni '70
quella dell'integrazione dei portatori di handicap nella
scuola di tutti. Chi scrive partecipò a quel movimento
fatto non solo da una psicologia allora in trincea, ma che aveva
alleati nel clima culturale sessantottesco, in un vero discorso
paritario di équipe, in un'idea forte. Ecco allora
che ci dovremmo inserire nel tessuto sociale con la creazione
di nuovi ãcontenitori organizzativi per la salute
(ad es. i servizi psicosociali, lo psicologo di base come il
medico di base, ecc.), ed anche con l'uso efficace (dovremmo
teoricamente esserne maestri!) dei moderni mezzi di comunicazione
e di relazione anche di massa, sapendoli vedere nei loro aspetti
positivi e non per gli aspetti depressivi e confusivi che la
attraversano, possiamo immaginari nuovi scenari e nuovi modelli
di intervento.
2. Modelli ed ambiti di intervento psicologico per la salute in età evolutiva
In tale ottica, di considerazione
integrale della persona nella sua soggettività e relazionalità,
cioè attenta a salvaguardare l'unità e la
complessità della persona in situazione (contesto, ambiente,
circolarità e ricorsività dei fattori), dobbiamo
saper valutare e sostenere e promuovere gli aspetti psichici
della salute ed offrire il necessario sostegno ed aiuto per
gli aspetti psichici delle sofferenze variamente espresse, utilizzando
tutti gli strumenti, i metodi, le potenzialità della
nostra professione. C'è spazio per tutti: psicologia
clinica e psicoanalisi,psicologia cognitivista e comportamentale,
psicologia umanistica e di comunità, per quell'unico
obiettivo della salute delle persone, che non ci può
essere senza quella delle comunità e delle istituzioni.
Ecco quindi che il lavoro per il bambino si intreccia al lavoro
per e con i genitori, gli insegnanti, la scuola, il quartiere.
Perché considerare questi ambiti separati? E perché
allora non lavorare più in integrazione tra noi, razionalizzando
il nostro intervento per ora diffuso tra vari Servizi eterodiretti
e per di più eterogeneamente (a seconda del carattere
e dell'impostazione dei Capi delle varie Unità
di appartenenza).? Questo è possibile solo avendo l'autonomia
di gestione, di risorse, di progetti. L'autonomia ci può
consentire il lavoro intra- e inter-dipartimentale più
efficace.
Dobbiamo saper cogliere i bisogni delle persone e della società
così come di fatto premono, e non secondo come sono organizzati
i nostri Servizi. Bisogni che sono complessi e intrecciati.
In tale intreccio consiste il disagio psichico e sociale che
attraversa in modo sempre più consistente bambini e adolescenti
e che noi dovremmo aiutare a superare. Perché parlarne
solo negli effetti eclatanti quali l'ãabuso
in età evolutiva di cui si appropriano i neuropsichiatri
infantili? Che hanno la capacità (e il riconoscimento
sociale di ruolo) per inventarsi un ãtelefono azzurro,
e che sono interpellati (grazie anche alla loro visibilità
professionale) dagli assessori che vogliono rendere le città
a misura di bambine e bambini. E che dire dell'aumento
progressivo degli psicofarmaci (la cui utilità, assicurano
gli esperti, è nel 90% dei casi priva di evidenza scientifica)
da somministrare a bambini turbolenti e difficili subito psichiatricamente
etichettati come affetti da disturbi dell' attenzione
con o senza iperattività, disturbi del comportamento,
disturbi della sfera emozionale, depressi, da eccitare o sedare
con Prozac e Ritalin, per prescrizione non solo degli specialisti
ma anche di pediatri e medici di base?
Dobbiamo davvero utilizzare nuovi modelli di intervento più
consoni alla nostra specifica prospettiva. Ad esempio la prevenzione.
Mi sia consentito (vista peraltro la mia formazione di base)
di ritornare al genio di Freud: ãQuando un bambino comincia
a mostrare i segni di uno spiacevole sviluppo e diventa svogliato,
testardo e distratto, il pediatra, e anche il medico scolastico,
non sanno che cosa fare di lui; e così pure se il bambino
presenta chiare manifestazioni nevrotiche, come stati ansiosi,
anoressia, vomiti e insonnia. Questi sintomi nevrotici, e queste
incipienti deviazioni del carattere, possono essere eliminati
da un trattamento che unifichi l'influenzamento analitico
e l'azione educatrice, e che sia condotto da persone che
non disdegnino d'occuparsi delle condizioni d'ambiente
del bambino e che sappiano aprirsi la via conducente alla sua
vita interiore (1926, cit., p.414). È vero che
Freud pensa ad analisi infantili come ãmezzo di profilassi
(p.415) e insiste su queste nevrosi infantili ãche spesso
passano inosservate· e [che possono costituire] fattori
predisponenti per forme gravi dell'età adulta
(ivi); ma aggiunge pure la fantasia che ãqualche miliardario
americano [possa] destinare una parte dei suoi quattrini per
educare analiticamente i social workers (ivi).
Ecco indicato uno dei modelli: la formazione, l'educazione,
il sostegno agli educatori, ai genitori. Dobbiamo certamente
investire di più sui processi educativi, illuminati da
serie ricerche psicologiche, per la costruzione della salute.Dobbiamo
cambiare ad esempio la prospettiva nella quale adesso si muove
la scuola, la classe insegnante, pronta a ricorrere allo psicologo
come delega, come richiesta per il sostegno, e quindi in funzione
solo dell'handicap e per interventi di fatto piuttosto
formali (come la partecipazione ai GLH operativi e alla stesura
dei Piani Educativi individualizzati) data l'annosa carenza
d'organico di psicologi nelle ASL. Dobbiamo invece riuscire
a trasformare l'interesse dell'insegnante nella
direzione di uno sviluppo sano di ogni componente del sistema
scuola, coinvolgendo direttamente la sua competenza professionale
opportunamente integrata con quella dello psicologo della sanità
(e si spera tra breve anche di quello scolastico). Dobbiamo
lavorare per la crescita degli ambienti di vita del bambino:
interessarci più attivamente delle condizioni del quartiere
quanto a risorse psicosociali, strutture educative (asili nido
compresi, o le nuove forme di asili condominiali), centri
di aggregazione giovanile, luoghi di incontro giovanile (discoteche,
palestre, ecc.). Il tutto in collaborazione tra pubblico e privato
(compresi liberi professionisti e cooperative), tra vari Enti
ed Istituzioni, tra varie organizzazioni.
Dobbiamo incidere sui fattori di rischio (non necessariamente
legati ad una specifica patologia, ad esempio sui disturbi prescolari
e scolari), sulle nuove fasce deboli (figli di famiglie povere,
immigrati, nomadi, di genitori psichiatrici, di madri detenute),
sui fattori di crescita e di creatività. Più specificamente
dobbiamo lavorare sull'alfabetizzazione emotiva, sull'educazione
ai sentimenti e all'affettività, sui processi di
autonomia (non già quando la dipendenza si è sviluppata
e strutturata), sui processi di aggregazione e condivisione
di modelli e valori giovanili (riferibili ad es. ai fattori
psicosociali delle stragi del sabato sera, dell'uso ed
abuso di sostanze tossiche: se ne interessa il SERT, ma perché
non farlo insieme, dato che l'uso di tali sostanze inizia
sempre più precocemente?). Dobbiamo lavorare sulla formazione
e il cambiamento dei modelli culturali relativi all'infanzia
e al suo ãusoed ãabuso, ma anche relativo
alla percezione sociale dell'intervento psicologico troppo
spesso ancora inteso (pure dai ragazzi) come ãcura del
matto.
Quindi la stessa ricchezza o molteplicità di interventi
va attuata per quello che riguarda la ãcura, la
ãclinica psicologica. Sicuramente abbiamo ancora
tantissimo spazio per potere fare il sostegno psicologico al
bambino ospedalizzato e alla sua famiglia, che nel 60% dei casi
risente negativamente di tale ãtrauma. Ma dobbiamo
saper andare oltre. Per noi cura significa ãprenderci
cura, ãprendere in carico l'aspetto
psichico della situazione di difficoltà e di disagio,
e non rispondere solo alle emergenze. Dobbiamo riuscire ad ãascoltare
gli adolescenti sia a livello singolo (quando chiedono l'aiuto)
sia quando tale richiesta è implicita (e ad es. nelle
scuole, aperto uno ãsportello di ascolto ti vengono
a frotte, magari per imitazione, curiosità, civetteria).
Dobbiamo insegnare agli adulti le tecniche per ascoltare veramente
il bambino anziché fare finta di occuparsi di lui, disattendendo
il suo messaggio in una collusione generale di interessi
consumistici e sensi di colpa dei genitori. Dobbiamo riuscire
ad organizzare gruppi di sostegno e di autoaiuto per adolescenti,
per genitori, per insegnanti (e magari gruppi Balint per medici,
e gruppi per il superamento del burn-out per noi stessi professionisti
dell'aiuto). Dobbiamo dare più spazio al sostegno
delle risorse individuali e sociali, alla riabilitazione ed
alla abilitazione (come dice, con un bellissimo termine a torto
trascurato, la legge costitutiva della nostra professione).
Quindi lavorare sull'orientamento lavorativo e di studio.
(Per altri modelli di tale intervento complesso in età
evolutiva, rimando al mio precedente articolo, Garofalo 2000).
Dobbiamo inoltre poter essere messi in grado di curare la nostra
formazione e la formazione dei futuri psicologi (dare una valenza
diversa ai tirocini post-lauream e di specializzazione) ed al
volontariato nei Servizi. Dobbiamo poter stare più insieme
in iniziative di confronto, covisione, discussione (forse abbiamo
paura dell'autonomia anche per questo, poiché siamo
stati abituati a gestirci da soli).
Per potere fare tutto questo abbiamo bisogno dell'autonomia.
Questa ci può dare la necessaria forza per acquistare
visibilità scientifica e sociale, per pretendere aumento
di organico, per collaborare effettivamente coi medici (che
adesso cominciano loro a riciclarsi come ãesperti della
salute, appropriandosi dell'educazione sanitaria
e pretendendo l'esclusiva -magari dopo essere stati formati
da noi psicologi- per corsi di educazione alimentare, corsi
di accoglienza nelle strutture sanitarie, ecc.).
Realizzare progetti, assicurare la qualità, fare ricerca:
sono i nuovi imperativi dell'organizzazione sanitaria
di tipo aziendale. Ma tutto questo lo si può realizzare
non dipendendo da responsabili medici con mentalità medica.
Non è che quest'ultima sia esecrabile, solo che
non ci appartiene. Bisogna che possiamo gestire un nostro budget.
Che possiamo autovalutarci e non essere valutati da altri
professionisti con altra mentalità. E cerchiamo il naturale
alleato in un ãmovimento culturale che sappia vedere
ed incanalare i bisogni sempre più intrecciati e complessi
di salute delle persone in nuovi canali di risposta, quindi
non più soddisfacibili nella tradizionale ottica sanitaria.
Conclusione. Sostenere il cambiamento culturale e dei Servizi verso i nuovi modelli epistemologici
È importante dare un
nome alle cose: i nomi riflettono i contenuti. Non è
un caso ad esempio che l'ultimo Piano Sanitario Nazionale
(abortito col nuovo governo) prevedesse dei Centri territoriali
di assistenza neuropsichiatrica per l'età evolutiva,
ovviamente coordinati da un medico neuro-psichiatra, tornando
addirittura indietro rispetto alla conquista della sopraddetta
denominazione come Area della Tutela Salute Mentale e Riabilitazione
in Età Evolutiva (data comunque in procinto di traslocare
o al Dipartimento di Salute Mentale o, nell'ultima tendenza,
all'Area di Pediatria). È invece ora di chiedere
addirittura a livello nazionale l'istituzione, presso
ogni Azienda, di un unico Centro (o Servizio o Area) di
psicologia per l'età evolutiva, che accorpi appunto
le competenze dei consultori e quelle destinate alle difficoltà
o handicap infantili, proprio per dare una risposta epistemologicamente
corretta ed operativamente più efficace.
La psicologia nei servizi sanitari in genere (soprattutto ospedalieri)
è ancora considerata un'ottima ancilla della medicina
biologica, o tutt'al più -in quelli più
evoluti- come una bella compagna magari da sposare, ma da relegare
alle faccende domestiche. Per evitare questo dobbiamo rendere
più visibile la nostra identità, socialmente
indispensabile la nostra operatività, e forte la nostra
autonomia per una più efficace integrazione tra noi e
con tutte le altre professionalità.
Per ottenere questa nuova organizzazione, e quindi normative
più adeguate, dobbiamo avere non tanto la forza di una
lobby, ma la forza di idee sostenute dall'intera comunità
civile in quanto rispondenti ai nuovi bisogni di crescita personale
e sociale. Non c'è, per questo aspetto, aggancio
migliore che puntare ad un vasto, effettivo, polivalente ãmovimento
in difesa del bambino, analogo a quello avviato con successo
a proposito dell'adolescenza (tradottosi concretamente,
in alcuni casi, con l'istituzione di Servizi specifici
all'interno delle Aziende). Di fronte all'urgenza
dei bisogni dell'infanzia, che solo a parole è
considerata fondamentale per la costruzione della personalità
e per il miglioramento preventivo della società, dovremmo
insieme con molti altri soggetti individuali e istituzionali
saper lottare per gli effettivi e concreti diritti del bambino,
per il suo sviluppo nel senso dell'autonomia, della solidarietà,
della complessità ecologica, contro ogni sfruttamento,
abuso, possesso, omologazione culturale dell'infanzia,
con una particolare attenzione alle nuove realtà che
creano svantaggio, disagio e debolezza nei bambini e con un
particolare rispetto delle diversità a tutti i livelli.
Questo significa animare la società civile attraverso
lo sviluppo del benessere infantile, e sostenere quest'ultimo
attraverso la crescita della prima.
Per fare tutto ciò dobbiamo convincerci prima noi della
nostra (Pur relativa) indispensabilità per la salute
delle persone, delle organizzazioni, della società, quindi
della nostra ricchezza modulata nelle più diverse competenze,
e quindi della necessità di un'autonomia vera per
un servizio più efficiente ed efficace.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
ESSENZIALI
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GADAMER H.G., Dove si nasconde la salute, Cortina, Milano 1994.
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SAMMARTANO G.-XIBILIA C., Dal mito multiprofessionale al Servizio
di psicologia, Giuseppe Laterza, Bari 2000.
Sommario
PREMESSA
-Al bambino con bisogni complessi e intergrati deve rispondere
un unico Servizio integrato per l'età
evolutiva, comprensivo di un'unica risposta specialistica
psicologica (pur in un'organizzazione che preveda ãgruppi
di lavoro o ãmoduli specifici)
-La differenziazione storica tra Area Consultoriale ed Area
Età Evolutiva va inglobata in una unitarietà ispirata
non al minimo comune denominatore medico, ma alla massima evidenziazione
della specificità psicologica
ASPETTI TEORICI: L'ISPIRAZIONE
EPISTEMOLOGICA DELL'INTERVENTO PSICOLOGICO PER L'INFANZIA
-Bisogna rivedere alcune idee motrici di fondo:
Salute: progressivo ed integrale sviluppo del bambino/adolescente
in un'autonomia che ha
bisogno di positive relazioni interpersonali, sociali,
ambientali
Diagnosi: funzionale al sostegno del processo di crescita
e attenta alle capacità e alle risorse del bambino/adolescente
Sintomi: capacità di ascoltare e di leggere i
messaggi del bambino/adolescente
Cura: sostegno alle capacità di autonomia
e di relazione del bambino/adolescente, sostenendo l'intero
sistema in cui egli è inserito
Équipe: l'integrazione avviene nel riconoscimento
paritario della diversità dei modelli epistemologici
usati dal medico e dello psicologo
-Quindi è indispensabile l'autonomia funzionale
ed operativa in funzione del modello epistemologico
ASPETTI OPERATIVI: MODELLI E AMBITI DI INTERVENTO PSICOLOGICO
PER L'ETÀ EVOLUTIVA
-Bisogna puntare tutti insieme, al di là di compiti istituzionali
per ora suddivisi in funzione dei servizi e non dei soggetti
ed utilizzando tutti i nostri orientamenti teorici, a:
-Interventi sui fattori di crescita, di coping e non
solo di rischio: ad es. l'educazione socioaffettiva, l'educazione
alla creatività, l'orientamento in tutte le sue
accezioni
-Interventi di ascolto clinico e di presa in carico globale, anche attraverso la riabilitazione, l'abilitazione, la formazione
-Interventi di educazione alla salute e sui processi educativi
e culturali, nella specifica prospettiva della crescita
psichica e mentale
-Interventi sulle difficoltà di sviluppo e sul disagio in un'ottica globale e quindi attraverso strumenti come
formazione, educazione, sostegno a genitori, educatori, comunità
-Interventi di promozione psichica nei luoghi di crescita,
di sofferenza e di disagio del bambino/adolescente (famiglia,
scuola, quartiere, ospedale), con attenzione particolare alle
vecchie e nuove fasce deboli
-Quindi è indispensabile l'autonomia funzionale
ed operativa, sia per la realizzazione del lavoro per progetti
e per ricerche, sia per la formazione interna alla nostra professione
CONCLUSIONE
-Bisogna chiedere l'istituzione a livello nazionale, per
ogni Azienda, di un unico Servizio di psicologia per l'età
evolutiva
-Bisogna sostenere l'intervento psicologico per l'infanzia
attraverso la creazione di un più generale movimento
culturale per il bambino e i suoi diritti.