L'abuso
sessuale ai minori e l'esperienza del Consultorio Familiare
di Tullio Garau
Parole
chiave
abuso, abuso sessuale, ascolto, incesto.
Keiwords
Abuse, sexual abuse, listening attitude, transference, countertransference
Abstract
The author aims at framing the child abuse within psychological
abuse. He define the process of Self-construction and Self-organization
in the children and the development of his needs. According to author
the child abuse threatens the integrity of the Self and the psychological
development of the children. Some severe forms of child abuse need
a long term psychotherapy. The paper focuses on some technical problems
of management with this kind of patients. Particular attention is
given to the transference-countertransference relation between patient
and therapist. The paper highlights the role of conceptual thinking
in the working through of the traumatic experience. In conclusion
he emphasizes the ãlistening attitudeä as first and
indispensable way to realize the cildren suffering.
L'abuso sessuale
L'abuso
sessuale e l'incesto si collocano all'interno di un sistema estremamente
complesso di elementi storici, sociali e psicologici i quali non
hanno ancora trovato a tutt'oggi un inserimento in un quadro complessivo
omogeneo ed articolato, sebbene non manchino in letteratura studi
ampi e articolati.
Non ostante questo molto si sa sull'abuso sessuale e sull'incesto.
E' noto ormai che questi due fenomeni attraversano tutti i gruppi
sociali senza sostanziali differenze di incidenza. L'influenza degli
aspetti sociali, di quelli culturali ed economici appare quindi
secondaria nella genesi di questi comportamenti. Questo non significa
affermare che non esistano dei fattori di rischio psicologico e
sociale rapportabili alle situazioni di abuso ma piuttosto che questi
fattori di rischio sono in gran parte aspecifici e cioè non
collegabili univocamente a queste situazioni.
Al momento attuale non tutti coloro che si occupano di questo problema
sono concordi nel dare una definizione condivisa dello stesso. La
definizione più accettata è comunque quella per la
quale è definito abuso ogni relazione sessuale imposta da
un adulto a un minore. Il coinvolgimento di un minore in una relazione
sessuale di questo tipo si basa infatti su una posizione di potere
e dominio da parte dell'abusante. L'esperienza clinica del resto
ha ampiamente evidenziato che chi abusa dei bambini cerca, attraverso
comportamenti sessuali, di soddisfare un bisogno di potere, di controllo
e di dominio.
L'abuso costituisce sul piano delle relazioni interne dell'abusato
una devastante esperienza di intrusione che può sovvertire,
se non distruggere, i contenuti del suo mondo interno. Al bambino
abusato vengono infatti imposti comportamenti sessuali anomali rispetto
al suo stato di maturazione mentale e fisica e che quindi non può
contenere, anche perché raramente ha in quel momento la possibilità
di avere vicino a sé un adulto "sano" con cui condividere
l'esperienza traumatica.
E' la solitudine del bambino, in quel momento, che non gli permette
di tollerare l'esperienza traumatica e che lo porterà, successivamente,
per sopravvivere, a mettere in atto meccanismi di scissione dell'apparato
psichico.
La violenza psicologica che è intrinseca all'abuso sessuale,
consiste in una vera e propria inversione del flusso delle proiezioni
per cui l'abusante usa la mente della vittima per scaricarvi le
proprie proiezioni, creando una sorta di sconvolgimento che può
essere appunto tollerato spesso solo mettendo in atto meccanismi
di scissione.
Come scrive G. Guasto: "L'abuso sessuale ha in comune con altre
esperienze di maltrattamento, la caratteristica di essere, prima
di tutto, un abuso psicologico." (5)
Quando l'abusante è, come spesso succede, un parente, se
non un genitore, del bambino, questa caratteristica è ancora
più gravida di conseguenze negative
Nel rapporto con l'adulto abusante il bambino si pone inizialmente
con una disponibilità affettiva pressoché totale
e si ritrova col compito, impossibile per lui, di integrare questa
disponibilità con la rabbia, il dolore e i vissuti di abbandono
e di perdita. Se consideriamo poi che nella grande maggioranza dei
casi il bambino abusato ha provato anche delle sensazioni di piacere
ancora di più appare evidente come il compito di integrare
tutte queste esperienze sia qualcosa che va al di là delle
sua capacità.
Il bambino abusato non può e non riesce a metabolizzare questa
esperienza che si incista come un corpo estraneo (6) nella sua mente.
Il trauma determinato dall'abuso viene quindi percepito come drammaticamente
reale e altrettanto drammaticamente come estraneo al Sé.
In quanto corpo percepito come estraneo rispetto alla propria esperienza,
l'abuso non ha inoltre la possibilità di essere dimenticato.
Al contrario, il tentativo di rimozione non ha altro effetto che
quello di mantenere proprio quel corpo estraneo che si vorrebbe
eliminare.
Il bambino ha la necessità, per crescere, di organizzare
se stesso in modo armonico, conciliando, o imparando a conciliare,
bisogni spesso contraddittori. Questa organizzazione viene definita
come "coesione" o "integrazione" del Sé.
Avere un Sé coeso ed integrato significa innanzi tutto riconoscere
come propri tutta una serie di bisogni materiali e affettivi e significa
organizzare questi bisogni in una totalità organica e articolata
che permetta al bambino di sviluppare una sana autostima.
Schematizzando e semplificando al massimo la complessità
delle dimensioni intrapsichica ed interpsichica si possono individuare,
in quest'ottica, tre bisogni fondamentali nel bambino (3):
- il bisogno di rispecchiamento e cioè il bisogno di ricevere
una conferma positiva della propria identità
- il bisogno di idealizzare le figure genitoriali e cioè
il bisogno di vedere nei genitori dei punti di riferimento stabili
e sicuri
- il bisogno di gemellarità e cioè il bisogno di sentirsi
appartenente ad una comunità.
L'abuso attacca in maniera radicale questi bisogni.
L'abuso attacca innanzitutto il bisogno di rispecchiamento empatico
del bambino e lo fa in maniera particolarmente perversa.
Almeno in un primo momento, infatti, il bambino abusato, soprattutto
quando l'abuso avviene in ambito familiare, può sentirsi
valorizzato sia nella immagine di sé sia nella capacità
di dare e ricevere piacere. Questa iniziale, perversa, valorizzazione
non dura però molto per l'impossibilità da parte del
bambino di integrare queste sensazioni nella propria esperienza
mentale ed esistenziale. A questo punto la illusoria stima di sé
attivata dall'abuso viene a cadere. La pseudo valorizzazione del
bambino da parte dell'abusante si rivela quindi per quello che è
realmente: una copertura superficiale e strumentale dell'odio e
del disprezzo.
Anche il bisogno di idealizzare i genitori è distrutto dalla
esperienza di abuso in ambito familiare. Da un lato il bambino percepisce
il genitore abusante come il responsabile della violenza subita
e dall'altro percepisce il genitore connivente, passivo o assente,
come incapace di difenderlo da questa violenza. Nessuna delle due
figure può costituire più per il bambino una base
sicura. Se è vero infatti che anche nel bambino abusato continua
a permanere una immagine idealizzata dei genitori è vero
però che questa immagine non può più costituire
una base sulla quale costruire una propria identità positiva.
L'immagine idealizzata che resta nella mente del bambino abusato
ha infatti solo la funzione difensiva di copertura di profondi sentimenti
di rabbia e di protesta, di delusione e di odio.
Infine lo stesso bisogno di gemellarità è duramente
messo alla prova dall'esperienza dell'abuso. Come può infatti
il bambino abusato realizzare una gemellarità priva di conflitti
con il genitore dello stesso sesso se, come spesso capita, ne ha
usurpato il posto all'interno della struttura familiare? Come può,
per esempio, una bambina abusata dal padre identificarsi con la
madre di cui ha occupato il posto rompendo il senso di solidarietà
e di comune appartenenza che dovrebbe legarla ad essa?
La reiterazione dell'abuso lo rende poi particolarmente insidioso
e pervasivo. Questa pervasività in un Sé non
coeso e non pienamente strutturato ha, come si è detto, un
effetto devastante per lo sviluppo psicologico e può facilmente
portare allo strutturarsi di quelle gravi patologie.
Il bambino si trova così prigioniero di una relazione che
continua a mantenersi anche quando sia allontanato dall'abusante
il quale è vissuto come un persecutore onnisciente in grado
di controllare ogni tentativo di rottura del legame. E' per questo
motivo che il bambino abusato manifesta poi delle serie difficoltà
a rapportarsi anche con le persone che vorrebbero prendersi cura
di lui. L'abuso ha seriamente compromesso il patto di fiducia tra
il bambino e il mondo degli adulti e non sarà facile ricomporre
questa frattura.
Il destino di un'esperienza abusante o incestuosa è quello
di non essere mentalmente metabolizzata ma di rimanere incapsulata
nella mente come corpo estraneo che la vittima dell'abuso non è
in grado di rimuovere da solo.
L'abuso, le istituzioni e il Consultorio Familiare
Al
di là degli aspetti più prettamente clinici, a livello
istituzionale occorre definire un punto fermo dal quale partire,
punto fermo che è dato dal fatto ineludibile che l'abuso
sessuale è un grave reato contro la persona e come tale va
considerato da chiunque in ogni contesto.
La necessità di definire un punto di partenza quanto più
preciso possibile diviene inderogabile nel momento in cui la definizione
di abuso si sposta appunto dal campo della clinica a quello degli
interventi operativi.
Nella determinazione dell'accertamento dell'esistenza di una situazione
di abuso sono infatti coinvolti diversi soggetti professionali (medici,
psicologi, operatori sociali, magistrati, forze dell'ordine, avvocati,
ecc.) che, partendo dalla propria specifica identità professionale,
possono avere una visione del problema anche nettamente differente
su aspetti di fondamentale importanza quali la protezione del minore
o l'apertura di procedimenti penali a carico del presunto abusante.
Generalmente l'Autorità Giudiziaria ricorre a consulenti
privati per la determinazione di una situazione di abuso ma spesso,
soprattutto il Tribunale per i Minorenni, comincia a valersi anche
della collaborazione degli operatori del servizio pubblico e del
Consultorio Familiare in particolare. Il ricorso allo psicologo
consultoriale avviene probabilmente perché ci si comincia
ad interrogare sulla esaustività di uno strumento quale la
CTU che, pur svolta nel migliore dei modi e quindi non più
semplicemente orientata su un versante prevalentemente diagnostico,
è forzatamente legata ad una dimensione temporale ridotta.
Il ricorso agli operatori del servizio pubblico, se da un lato testimonia
della sensibilità da parte dei giudici della necessità
di una presa in carico di una situazione con una dimensione temporale
che la CTU non può per principio avere, pone però
a sua volta tutta una serie di problemi (2).
Per la posizione istituzionale che si trova ad occupare, lo psicologo
consultoriale è portato a privilegiare la relazione di aiuto
allâutente per cui si trova in difficoltà quando deve
invece assumere un ruolo di valutazione nei confronti dellâutente
stesso. Le remore dellâoperatore del servizio pubblico in
questo caso derivano dal trovarsi in una posizione ritenuta falsa
per cui se da un lato deve creare un rapporto di fiducia con lâutente
dallâaltro sente in qualche modo di tradire questa fiducia
portando in ambito giudiziario quanto è emerso dal suo rapporto
privilegiato con lâutente.
Questa difficoltà è fortemente sentita dagli operatori
dei Consultori Familiari i quali, essendo loro demandato per legge
lo stabilire una relazione di aiuto, trovano poi difficile operare
in un ambito in cui viene invece richiesta una valutazione gravida
di conseguenze per lâutente.
Una soluzione potrebbe essere quella di differenziare, coordinandole,
le attività del consulente tecnico e quelle dello psicologo
consultoriale. Verrebbero così salvaguardate le esigenze
giudiziarie di accertamento e di valutazione attraverso lâaffidamento
della consulenza ad uno psicologo privato e verrebbe salvaguardato
il ruolo di tutela e sostegno tipico del servizio pubblico.
Il coordinamento del lavoro tra consulente privato e psicologo consultoriale
si tradurrebbe inoltre in una migliore tutela sia del minore sia
di quella parte del nucleo familiare che ha trovato il coraggio
di opporsi alla situazione di abuso. Lâapporto degli operatori
del Consultorio Familiare potrebbe, infatti, permettere una presa
in carico del nucleo familiare in un arco di tempo sufficientemente
lungo da permettere lâelaborazione dei vissuti legati all'abuso
stesso.
Il coordinamento e la collaborazione tra consulente privato e operatore
del consultorio al di là degli aspetti tecnici ed operativi,
sui quali è necessario un lavoro di approfondimento ancora
in gran parte da svolgere, pone anche dei problemi a causa della
differente collocazione dei due, essendo lâuno un libero professionista
e lâaltro dipendente di una istituzione quale la Asl che ha
una sua precisa organizzazione gerarchica ed una precisa regolamentazione
dei rapporti con lâesterno.
Queste difficoltà potrebbero essere superate se il ruolo
di coordinamento tra consulente privato ed operatore pubblico venisse
assunto dalla Autorità Giudiziaria a partire dalla precisa
determinazione dei rispettivi compiti ed ambiti di intervento.
Il ruolo dello psicologo del Consultorio Familiare
In
attesa di una più precisa regolamentazione dei rapporti e
del coordinamento tra consulente privato e psicologo consultoriale,
allo stato attuale gli operatori del Consultorio Familiare possono
venire in contatto con situazioni di abuso in almeno tre situazioni
tipo.
La prima è quella della denuncia diretta dell'abuso da parte
dell'abusato, o più spesso di un familiare di questi.
La seconda deriva da un incarico ricevuto dalla Autorità
Giudiziaria (generalmente Tribunale per i Minorenni) di valutazione
della situazione di un nucleo familiare problematico e della presenza
di eventuali fattori di rischio (abuso compreso) per i minori facenti
parte di tale nucleo.
La terza, infine, è il racconto di situazioni di abuso subite
durante l'infanzia o l'adolescenza da parte di utenti che si sono
rivolti al Consultorio inizialmente con richieste di tipo diverso.
Sebbene i primi due tipi di situazioni non siano rare, è
sicuramente l'ultima quella che più spesso si incontra nella
attività consultoriale.
I problemi che pongono comunque le tre situazioni tipo sono piuttosto
complessi, sia per la delicatezza dell'argomento sia per la specificità
del ruolo del Consultorio Familiare.
Per la loro stessa natura e costituzione, le istituzioni, quando
si trovano di fronte al problema dell'abuso, possono facilmente
arrivare a peccare di adultocentrismo, riproponendo così
inconsapevolmente lo stesso atteggiamento che ha l'abusante nei
confronti dell'abusato.
Adultocentrismo è infatti quello dell'abusante che usa il
bambino, disponendo di esso come se fosse una sua appendice, ma
adultocentrismo è anche quello delle istituzioni che a volte
stentano a riconoscere e rispettare il mondo interno del bambino
abusato e ad entrare in contatto con esso in maniera non invasiva
(5).
Per evitare questo rischio è di fondamentale importanza che
lo psicologo che si avvicina al bambino abusato e alla sua famiglia
(o a quella parte della famiglia che si è opposto all'abuso
e che sostiene il bambino) abbia acquisito, oltre ad una formazione
clinica generale, una specifica conoscenza degli aspetti clinici
dell'abuso e del trattamento dell'abusato.
La preparazione tecnica, che sta comunque alla base di qualunque
intervento di accertamento o di tutela nei casi di abuso, non è
però sufficiente. A questi livelli hanno un ruolo fondamentale
la capacità di ascolto, la capacità di porsi in maniera
empatica nei confronti della vittima dell'abuso e la capacità
di "leggere" ed utilizzare le emozioni che il confronto
con queste problematiche fa scaturire nel mondo interno dell'operatore.
G. Guasto, parlando delle emozioni del Consulente Tecnico di fronte
al problema dell'abuso, fa delle interessanti considerazioni che
possono essere facilmente estese allo psicologo consultoriale che
si trovi a dover affrontare lo stesso problema.
Tre sono gli aspetti problematici che egli individua: un primo relativo
al mondo interno della vittima dell'abuso ed al contesto relazionale
nel quale questa si trova inserita, un secondo relativo invece al
contesto ambientale nel quale si svolge lâaccertamento o il
sostegno e infine un terzo relativo appunto alle emozioni che nascono
nella psiche dellâoperatore (6).
In relazione al primo aspetto problematico, quello relativo al mondo
interno della vittima ed al contesto relazionale in cui questa vive,
sia che il ruolo che viene assunto abbia caratteristiche di valutazione
sia che abbia invece caratteristiche di sostegno alla vittima o
ai suoi familiari, le difficoltà maggiori sono inerenti in
maniera particolare soprattutto alla natura ed all'evoluzione dellâesperienza
traumatica.
La rappresentazione di questa esperienza allâinterno della
coscienza della vittima può infatti strutturarsi ed evolvere
in maniera assolutamente non lineare. La vittima può essere
infatti solo parzialmente, o solo in certi momenti, consapevole
dell'esperienza subita, in un alternarsi di ricordi e di rimozioni,
con l'aggiunta della possibile comparsa di sintomi somatici sostitutivi
della consapevolezza dell'esperienza stessa.
Solo attraverso un lungo e faticoso lavoro psicoterapeutico si può
arrivare alla ãmentalizzazioneä ed alla riappropriazione
dellâesperienza traumatica vissuta sino a quel momento come
parzialmente estranea.
Per ciò che riguarda poi il secondo aspetto, quello relativo
al contesto in cui si svolge soprattutto la attività di consulenza
alla Autorità Giudiziaria (proprio per quanto detto finora
sulle caratteristiche affatto particolari dell'evoluzione dell'esperienza
traumatica) appare evidente come spesso le esigenze procedurali
e i tempi processuali possano essere incompatibili con lo svolgimento
diagnosticamente corretto della consulenza stessa.
E' come se, paradossalmente, la strutturazione di un corretto "setting",
indispensabile per un valido colloquio valutativo, avesse minor
valore in questo ambito rispetto a quelli più comuni di esercizio
della attività di consulenza spontanea.
Il terzo aspetto, quello relativo alle emozioni che il confronto
con un tema quale quello dell'abuso genera nella mente del consulente,
è forse quello più delicato.
In realtà, al di là degli aspetti tecnici e di preparazione,
è proprio su questo piano che si gioca l'efficacia dell'intervento,
sia esso di tipo valutativo che di sostegno. L'esperienza, l'empatia,
le emozioni del consulente, in generale, divengono così il
primo strumento di lavoro.
Il consulente si trova così a dover gestire ed utilizzare
vissuti emotivi quali l'impotenza di fronte all'intensa sofferenza
manifestata dalla vittima, la rabbia nei confronti dell'autore dell'abuso,
la consapevolezza della a volte insufficiente risposta istituzionale
di tutela in caso di abuso intrafamiliare e infine l'emozione forse
più difficile da gestire quella cioè relativa alla
ambivalenza della vittima nei confronti della esperienza subita
e nei confronti dell'autore di essa.
A questo punto è evidente quanto sia ideologica la posizione
di chi, in un ambito connotato da emozioni così violente,
pretenda di mantenere una sorta di obiettività attenendosi
esclusivamente ai "fatti" o alla presenza di indicatori
che sono quasi sempre in sé aspecifici e che assumono invece
una rilevanza ed un significato solo nel contesto di un ascolto
di tipo empatico.
In questo modo viene a costituirsi una metodologia di lavoro che
privilegia le componenti empatiche ed emotive del processo conoscitivo
senza peraltro rinunciare, nel caso di una consulenza di tipo valutativo,
alla necessità di prove di falsificazione.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, infatti, l'ascolto empatico
della vittima dell'abuso non solo non riduce la attendibilità
della osservazione ma rende minima la reazione di difesa che passa
attraverso la riduzione delle funzioni conoscitive dovuta al forte
impatto emotivo che il rapporto con la vittima dell'abuso genera.
Questo atteggiamento emotivo è peraltro il più idoneo
ad accertare la presenza di spinte istigative o di false denuncie.
Anche in questi casi infatti un atteggiamento di condivisione tra
il consulente e la vittima dell'abuso evita i danni della violenza
psicologica messa in atto dall'adulto istigante.
Un'indagine condotta con criteri di estrema superficialità
non giunge di solito ad alcuna acquisizione significativa, proprio
per lâindisponibilità della vittima a rapportarsi con
un osservatore che gli fa mancare il contatto, e quindi, il contenimento
necessario a non farlo sentire solo con le proprie devastanti esperienze.
I risultati di accertamenti privi di empatia sono peraltro non solo
poveri di contenuti ma portatori di una nuova esperienza traumatica
a danno dell'abusato.
Claudio Foti e Cristina Roccia, del Centro Studi Hansel e Gretel
di Torino (4), hanno steso una sorta di Decalogo sull'ascolto del
minore vittima o potenziale vittima di abusi che ben si attaglia
alla posizione che lo psicologo consultoriale dovrebbe avere quando
si trova di fronte alla vittima di un possibile abuso.
1.Ricordare che la parola è il principale strumento a disposizione
del minore per difendersi dall'adulto abusante ed è anche
il principale strumento a disposizione degli operatori.
2. Non disprezzare il minore pensando che sia strutturalmente portato
alla menzogna e alla costruzione fantastica.
3. Non temere di danneggiare il minore affrontando direttamente
i problemi.
4. Non attribuire al minore i problemi soggettivi e le difficoltà
emozionali a trattare la sessualità, problemi e difficoltà
che possono essere invece dell'operatore.
5. Non delegare ad operatori di altre istituzioni il compito di
ascoltare il minore.
6. Mantenere una posizione di ricettività nei confronti del
minore senza anticipare nella interazione con lui situazioni o aspetti
che possano condizionare l'acquisizione dei dati.
7. Usare un linguaggio schietto e adeguato all'età del minore
e un atteggiamento naturale e privo di inibizioni.
8. Empatizzare con le emozioni del minore e con i suoi sentimenti,
la sua sofferenza e il suo disagio.
9. Nell'interazione con il minore mantenere il contatto con le proprie
emozioni, sia positive sia negative.
10. Non sottovalutare la complessità dell'interazione con
il minore.
Quello consultoriale dovrebbe essere quindi un lavoro di "assessment",
una sorta di collegamento tra l'evento traumatico e la sua elaborazione.
Occorre evitare il rischio gravissimo che l'intero processo elaborativo
possa interrompersi, senza lasciare spazio ad una successiva presa
in carico. Per far questo occorre procedere oltre la rappresentazione
traumatica, oltre l'episodio stesso di abuso. E questo è
appunto possibile solo attraverso uno stile di osservazione partecipe
della sofferenza dell'abusato (ed eventualmente della sua famiglia),
un atteggiamento di ascolto che permetta la costruzione di uno spazio
potenziale in cui il bambino trovi le condizioni per fare una nuova
esperienza di attaccamento sana. Lo psicologo del Consultorio deve
quindi essere una sorta di "presenza transizionale" (1)
che lavori al fine di permettere di trovare o ritrovare le parole
giuste per "nominare" quanto è accaduto. Solo offrendo
l'opportunità al bambino di riconoscere i suoi bisogni primitivi
e di promuovere la sua capacità di rappresentare simbolicamente
è possibile sostenere le sue stesse capacità di rispondere
creativamente al trauma.
Compito fondamentale sarà quindi quello di ripercorrere con
l'abusato un lungo tratto di maturazione emotiva, per far sì
che là dove era un oggetto interno parassitario e distruttore,
possa installarsi in sua vece un oggetto comprensivo e rispettoso
(5).
Bibliografia
1 - Carratelli, Di Cori e Sabatello , "Primum non nocere"
: la costruzione di una cornice terapeutica nella valutazione del
bambino vittima di abuso - Intervento presentato al Convegno "Le
vittime e gli attori della violenza - Comprendere e curare per prevenire",
Torino, 7 - 8 novembre 1997
2 - Dell'Antonio A., La consulenza psicologica per la tutela dei
minori, NIS, Roma, 1989
3 - C. Foti, Il trauma psichico, in Minori e Giusizia, numero monografico
dedicato all'Abuso sui Minori, 1997, pp.48-58
4 - C. Foti, C. Roccia, M. Rostagno, C'era un bambino che non era
ascoltato, Centro Studi Hansel e Gretel, 1997
5 - G. Guasto, L'adultocentrismo nel trattamento istituzionale e
terapeutico dell'abuso sessuale, testo pubblicato sulla Rivista
Telematica Psychomedia, URL address: http.www.psychomedia.it, 21
maggio 1999
6 - G. Guasto, Il trave e la pagliuzza: le emozioni del CTU di fronte
al minore abusato, Rielaborazione della relazione "Il Trauma
dell'abuso sessuale: danno e ascolto. Campagna Nazionale dell'Associazione
"Rompere il silenzio": "La sessualità dei
minori tra silenzio e abuso", L'Aquila, 22 novembre 1997, testo
pubblicato sulla Rivista Telematica Psychomedia, URL address: http.www.psychomedia.it,
14 aprile 1999