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Esperienze e contributi degli psicologi sanitari

AREA SVILUPPO

L'abuso sessuale ai minori e l'esperienza del Consultorio Familiare
di Tullio Garau

Parole chiave
abuso, abuso sessuale, ascolto, incesto.

Keiwords
Abuse, sexual abuse, listening attitude, transference, countertransference

Abstract
The author aims at framing the child abuse within psychological abuse. He define the process of Self-construction and Self-organization in the children and the development of his needs. According to author the child abuse threatens the integrity of the Self and the psychological development of the children. Some severe forms of child abuse need a long term psychotherapy. The paper focuses on some technical problems of management with this kind of patients. Particular attention is given to the transference-countertransference relation between patient and therapist. The paper highlights the role of conceptual thinking in the working through of the traumatic experience. In conclusion he emphasizes the ãlistening attitudeä as first and indispensable way to realize the cildren suffering.

 

L'abuso sessuale

L'abuso sessuale e l'incesto si collocano all'interno di un sistema estremamente complesso di elementi storici, sociali e psicologici i quali non hanno ancora trovato a tutt'oggi un inserimento in un quadro complessivo omogeneo ed articolato, sebbene non manchino in letteratura studi ampi e articolati.
Non ostante questo molto si sa sull'abuso sessuale e sull'incesto.
E' noto ormai che questi due fenomeni attraversano tutti i gruppi sociali senza sostanziali differenze di incidenza. L'influenza degli aspetti sociali, di quelli culturali ed economici appare quindi secondaria nella genesi di questi comportamenti. Questo non significa affermare che non esistano dei fattori di rischio psicologico e sociale rapportabili alle situazioni di abuso ma piuttosto che questi fattori di rischio sono in gran parte aspecifici e cioè non collegabili univocamente a queste situazioni.
Al momento attuale non tutti coloro che si occupano di questo problema sono concordi nel dare una definizione condivisa dello stesso. La definizione più accettata è comunque quella per la quale è definito abuso ogni relazione sessuale imposta da un adulto a un minore. Il coinvolgimento di un minore in una relazione sessuale di questo tipo si basa infatti su una posizione di potere e dominio da parte dell'abusante. L'esperienza clinica del resto ha ampiamente evidenziato che chi abusa dei bambini cerca, attraverso comportamenti sessuali, di soddisfare un bisogno di potere, di controllo e di dominio.
L'abuso costituisce sul piano delle relazioni interne dell'abusato una devastante esperienza di intrusione che può sovvertire, se non distruggere, i contenuti del suo mondo interno. Al bambino abusato vengono infatti imposti comportamenti sessuali anomali rispetto al suo stato di maturazione mentale e fisica e che quindi non può contenere, anche perché raramente ha in quel momento la possibilità di avere vicino a sé un adulto "sano" con cui condividere l'esperienza traumatica.
E' la solitudine del bambino, in quel momento, che non gli permette di tollerare l'esperienza traumatica e che lo porterà, successivamente, per sopravvivere, a mettere in atto meccanismi di scissione dell'apparato psichico.
La violenza psicologica che è intrinseca all'abuso sessuale, consiste in una vera e propria inversione del flusso delle proiezioni per cui l'abusante usa la mente della vittima per scaricarvi le proprie proiezioni, creando una sorta di sconvolgimento che può essere appunto tollerato spesso solo mettendo in atto meccanismi di scissione.
Come scrive G. Guasto: "L'abuso sessuale ha in comune con altre esperienze di maltrattamento, la caratteristica di essere, prima di tutto, un abuso psicologico." (5)
Quando l'abusante è, come spesso succede, un parente, se non un genitore, del bambino, questa caratteristica è ancora più gravida di conseguenze negative
Nel rapporto con l'adulto abusante il bambino si pone inizialmente con una disponibilità affettiva  pressoché totale e si ritrova col compito, impossibile per lui, di integrare questa disponibilità con la rabbia, il dolore e i vissuti di abbandono e di perdita. Se consideriamo poi che nella grande maggioranza dei casi il bambino abusato ha provato anche delle sensazioni di piacere ancora di più appare evidente come il compito di integrare tutte queste esperienze sia qualcosa che va al di là delle sua capacità.
Il bambino abusato non può e non riesce a metabolizzare questa esperienza che si incista come un corpo estraneo (6) nella sua mente. Il trauma determinato dall'abuso viene quindi percepito come drammaticamente reale e altrettanto drammaticamente come estraneo al Sé. In quanto corpo percepito come estraneo rispetto alla propria esperienza, l'abuso non ha inoltre la possibilità di essere dimenticato. Al contrario, il tentativo di rimozione non ha altro effetto che quello di mantenere proprio quel corpo estraneo che si vorrebbe eliminare.
Il bambino ha la necessità, per crescere, di organizzare se stesso in modo armonico, conciliando, o imparando a conciliare, bisogni spesso contraddittori. Questa organizzazione viene definita come "coesione" o "integrazione" del Sé.
Avere un Sé coeso ed integrato significa innanzi tutto riconoscere come propri tutta una serie di bisogni materiali e affettivi e significa organizzare questi bisogni in una totalità organica e articolata che permetta al bambino di sviluppare una sana autostima.
Schematizzando e semplificando al massimo la complessità delle dimensioni intrapsichica ed interpsichica si possono individuare, in quest'ottica, tre bisogni fondamentali nel bambino (3):
- il bisogno di rispecchiamento e cioè il bisogno di ricevere una conferma positiva della propria identità
- il bisogno di idealizzare le figure genitoriali e cioè il bisogno di vedere nei genitori dei punti di riferimento stabili e sicuri
- il bisogno di gemellarità e cioè il bisogno di sentirsi appartenente ad una comunità.
L'abuso attacca in maniera radicale questi bisogni.
L'abuso attacca innanzitutto il bisogno di rispecchiamento empatico del bambino e lo fa in maniera particolarmente perversa.
Almeno in un primo momento, infatti, il bambino abusato, soprattutto quando l'abuso avviene in ambito familiare, può sentirsi valorizzato sia nella immagine di sé sia nella capacità di dare e ricevere piacere. Questa iniziale, perversa, valorizzazione non dura però molto per l'impossibilità da parte del bambino di integrare queste sensazioni nella propria esperienza mentale ed esistenziale. A questo punto la illusoria stima di sé attivata dall'abuso viene a cadere. La pseudo valorizzazione del bambino da parte dell'abusante si rivela quindi per quello che è realmente: una copertura superficiale e strumentale dell'odio e del disprezzo.
Anche il bisogno di idealizzare i genitori è distrutto dalla esperienza di abuso in ambito familiare. Da un lato il bambino percepisce il genitore abusante come il responsabile della violenza subita e dall'altro percepisce il genitore connivente, passivo o assente, come incapace di difenderlo da questa violenza. Nessuna delle due figure può costituire più per il bambino una base sicura. Se è vero infatti che anche nel bambino abusato continua a permanere una immagine idealizzata dei genitori è vero però che questa immagine non può più costituire una base sulla quale costruire una propria identità positiva. L'immagine idealizzata che resta nella mente del bambino abusato ha infatti solo la funzione difensiva di copertura di profondi sentimenti di rabbia e di protesta, di delusione e di odio.
Infine lo stesso bisogno di gemellarità è duramente messo alla prova dall'esperienza dell'abuso. Come può infatti il bambino abusato realizzare una gemellarità priva di conflitti con il genitore dello stesso sesso se, come spesso capita, ne ha usurpato il posto all'interno della struttura familiare? Come può, per esempio, una bambina abusata dal padre identificarsi con la madre di cui ha occupato il posto rompendo il senso di solidarietà e di comune appartenenza che dovrebbe legarla ad essa?
La reiterazione dell'abuso lo rende poi particolarmente insidioso e pervasivo.  Questa pervasività in un Sé non coeso e non pienamente strutturato ha, come si è detto, un effetto devastante per lo sviluppo psicologico e può facilmente portare allo strutturarsi di quelle gravi patologie.
Il bambino si trova così prigioniero di una relazione che continua a mantenersi anche quando sia allontanato dall'abusante il quale è vissuto come un persecutore onnisciente in grado di controllare ogni tentativo di rottura del legame. E' per questo motivo che il bambino abusato manifesta poi delle serie difficoltà a rapportarsi anche con le persone che vorrebbero prendersi cura di lui. L'abuso ha seriamente compromesso il patto di fiducia tra il bambino e il mondo degli adulti e non sarà facile ricomporre questa frattura.
Il destino di un'esperienza abusante o incestuosa è quello di non essere mentalmente metabolizzata ma di rimanere incapsulata nella mente come corpo estraneo che la vittima dell'abuso non è in grado di rimuovere da solo.
 

L'abuso,  le istituzioni e il Consultorio Familiare

Al di là degli aspetti più prettamente clinici, a livello istituzionale occorre definire un punto fermo dal quale partire, punto fermo che è dato dal fatto ineludibile che l'abuso sessuale è un grave reato contro la persona e come tale va considerato da chiunque in ogni contesto.
La necessità di definire un punto di partenza quanto più preciso possibile diviene inderogabile nel momento in cui la definizione di abuso si sposta appunto dal campo della clinica a quello degli interventi operativi.
Nella determinazione dell'accertamento dell'esistenza di una situazione di abuso sono infatti coinvolti diversi soggetti professionali (medici, psicologi, operatori sociali, magistrati, forze dell'ordine, avvocati, ecc.) che, partendo dalla propria specifica identità professionale, possono avere una visione del problema anche nettamente differente su aspetti di fondamentale importanza quali la protezione del minore o l'apertura di procedimenti penali a carico del presunto abusante.
Generalmente l'Autorità Giudiziaria ricorre a consulenti privati per la determinazione di una situazione di abuso ma spesso, soprattutto il Tribunale per i Minorenni, comincia a valersi anche della collaborazione degli operatori del servizio pubblico e del Consultorio Familiare in particolare. Il ricorso allo psicologo consultoriale avviene  probabilmente perché ci si comincia ad interrogare sulla esaustività di uno strumento quale la CTU che, pur svolta nel migliore dei modi e quindi non più semplicemente orientata su un versante prevalentemente diagnostico, è forzatamente legata ad una dimensione temporale ridotta.
Il ricorso agli operatori del servizio pubblico, se da un lato testimonia della sensibilità da parte dei giudici della necessità di una presa in carico di una situazione con una dimensione temporale che la CTU non può per principio avere, pone però a sua volta tutta una serie di problemi (2).
Per la posizione istituzionale che si trova ad occupare, lo psicologo consultoriale è portato a privilegiare la relazione di aiuto allâutente per cui si trova in difficoltà quando deve invece assumere un ruolo di valutazione nei confronti dellâutente stesso. Le remore dellâoperatore del servizio pubblico in questo caso derivano dal trovarsi in una posizione ritenuta falsa per cui se da un lato deve creare un rapporto di fiducia con lâutente dallâaltro sente in qualche modo di tradire questa fiducia portando in ambito giudiziario quanto è emerso dal suo rapporto privilegiato con lâutente.
Questa difficoltà è fortemente sentita dagli operatori dei Consultori Familiari i quali, essendo loro demandato per legge lo stabilire una relazione di aiuto, trovano poi difficile operare in un ambito in cui viene invece richiesta una valutazione gravida di conseguenze per lâutente.
Una soluzione potrebbe essere quella di differenziare, coordinandole, le attività del consulente tecnico e quelle dello psicologo consultoriale. Verrebbero così salvaguardate le esigenze giudiziarie di accertamento e di valutazione attraverso lâaffidamento della consulenza ad uno psicologo privato e verrebbe salvaguardato il ruolo di tutela e sostegno tipico del servizio pubblico.
Il coordinamento del lavoro tra consulente privato e psicologo consultoriale si tradurrebbe inoltre in una migliore tutela sia del minore sia di quella parte del nucleo familiare che ha trovato il coraggio di opporsi alla situazione di abuso. Lâapporto degli operatori del Consultorio Familiare potrebbe, infatti, permettere una presa in carico del nucleo familiare in un arco di tempo sufficientemente lungo da permettere lâelaborazione dei vissuti legati all'abuso stesso.
Il coordinamento e la collaborazione tra consulente privato e operatore del consultorio al di là degli aspetti tecnici ed operativi, sui quali è necessario un lavoro di approfondimento ancora in gran parte da svolgere, pone anche dei problemi a causa della differente collocazione dei due, essendo lâuno un libero professionista e lâaltro dipendente di una istituzione quale la Asl che ha una sua precisa organizzazione gerarchica ed una precisa regolamentazione dei rapporti con lâesterno.
Queste difficoltà potrebbero essere superate se il ruolo di coordinamento tra consulente privato ed operatore pubblico venisse assunto dalla Autorità Giudiziaria a partire dalla precisa determinazione dei rispettivi compiti ed ambiti di intervento.
 

Il ruolo dello psicologo del Consultorio Familiare

In attesa di una più precisa regolamentazione dei rapporti e del coordinamento tra consulente privato e psicologo consultoriale, allo stato attuale gli operatori del Consultorio Familiare possono venire in contatto con situazioni di abuso in almeno tre situazioni tipo.
La prima è quella della denuncia diretta dell'abuso da parte dell'abusato, o più spesso di un familiare di questi.
La seconda deriva da un incarico ricevuto dalla Autorità Giudiziaria (generalmente Tribunale per i Minorenni) di valutazione della situazione di un nucleo familiare problematico e della presenza di eventuali fattori di rischio (abuso compreso) per i minori facenti parte di tale nucleo.
La terza, infine, è il racconto di situazioni di abuso subite durante l'infanzia o l'adolescenza da parte di utenti che si sono rivolti al Consultorio inizialmente con richieste di tipo diverso.
Sebbene i primi due tipi di situazioni non siano rare, è sicuramente l'ultima quella che più spesso si incontra nella attività consultoriale.
I problemi che pongono comunque le tre situazioni tipo sono piuttosto complessi, sia per la delicatezza dell'argomento sia per la specificità del ruolo del Consultorio Familiare.
Per la loro stessa natura e costituzione, le istituzioni, quando si trovano di fronte al problema dell'abuso, possono facilmente arrivare a peccare di adultocentrismo, riproponendo così inconsapevolmente lo stesso atteggiamento che ha l'abusante nei confronti dell'abusato.
Adultocentrismo è infatti quello dell'abusante che usa il bambino, disponendo di esso come se fosse una sua appendice, ma adultocentrismo è anche quello delle istituzioni che a volte stentano a riconoscere e rispettare il mondo interno del bambino abusato e ad entrare in contatto con esso in maniera non invasiva (5).
Per evitare questo rischio è di fondamentale importanza che lo psicologo che si avvicina al bambino abusato e alla sua famiglia (o a quella parte della famiglia che si è opposto all'abuso e che sostiene il bambino) abbia acquisito, oltre ad una formazione clinica generale, una specifica conoscenza degli aspetti clinici dell'abuso e del trattamento dell'abusato.
La preparazione tecnica, che sta comunque alla base di qualunque intervento di accertamento o di tutela nei casi di abuso, non è però sufficiente. A questi livelli hanno un ruolo fondamentale la capacità di ascolto, la capacità di porsi in maniera empatica nei confronti della vittima dell'abuso e la capacità di "leggere" ed utilizzare le emozioni che il confronto con queste problematiche fa scaturire nel mondo interno dell'operatore.
G. Guasto, parlando delle emozioni del Consulente Tecnico di fronte al problema dell'abuso, fa delle interessanti considerazioni che possono essere facilmente estese allo psicologo consultoriale che si trovi a dover affrontare lo stesso problema.
Tre sono gli aspetti problematici che egli individua: un primo relativo al mondo interno della vittima dell'abuso ed al contesto relazionale nel quale questa si trova inserita, un secondo relativo invece al contesto ambientale nel quale si svolge lâaccertamento o il sostegno e infine un terzo relativo appunto alle emozioni che nascono nella psiche  dellâoperatore (6).
In relazione al primo aspetto problematico, quello relativo al mondo interno della vittima ed al contesto relazionale in cui questa vive, sia che il ruolo che viene assunto abbia caratteristiche di valutazione sia che abbia invece caratteristiche di sostegno alla vittima o ai suoi familiari, le difficoltà maggiori sono inerenti in maniera particolare soprattutto alla natura ed all'evoluzione dellâesperienza traumatica.
La rappresentazione di questa esperienza allâinterno della coscienza della vittima può infatti strutturarsi ed evolvere in maniera assolutamente non lineare. La vittima può essere infatti solo parzialmente, o solo in certi momenti, consapevole dell'esperienza subita, in un alternarsi di ricordi e di rimozioni, con l'aggiunta della possibile comparsa di sintomi somatici sostitutivi della consapevolezza dell'esperienza stessa.
Solo attraverso un lungo e faticoso lavoro psicoterapeutico si può arrivare alla ãmentalizzazioneä ed alla riappropriazione dellâesperienza traumatica vissuta sino a quel momento come parzialmente estranea.
Per ciò che riguarda poi il secondo aspetto, quello relativo al contesto in cui si svolge soprattutto la attività di consulenza alla Autorità Giudiziaria (proprio per quanto detto finora sulle caratteristiche affatto particolari dell'evoluzione dell'esperienza traumatica) appare evidente come spesso le esigenze procedurali e i tempi processuali possano essere incompatibili con lo svolgimento diagnosticamente corretto della consulenza stessa.
E' come se, paradossalmente, la strutturazione di un corretto "setting", indispensabile per un valido colloquio valutativo, avesse minor valore in questo ambito rispetto a quelli più comuni di esercizio della attività di consulenza spontanea.
Il terzo aspetto, quello relativo alle emozioni che il confronto con un tema quale quello dell'abuso genera nella mente del consulente, è forse quello più delicato.
In realtà, al di là degli aspetti tecnici e di preparazione, è proprio su questo piano che si gioca l'efficacia dell'intervento, sia esso di tipo valutativo che di sostegno. L'esperienza, l'empatia, le emozioni del consulente, in generale, divengono così il primo strumento di lavoro.
Il consulente si trova così a dover gestire ed utilizzare vissuti emotivi quali l'impotenza di fronte all'intensa sofferenza manifestata dalla vittima, la rabbia nei confronti dell'autore dell'abuso, la consapevolezza della a volte insufficiente risposta istituzionale di tutela in caso di abuso intrafamiliare e infine l'emozione forse più difficile da gestire quella cioè relativa alla ambivalenza della vittima nei confronti della esperienza subita e nei confronti dell'autore di essa.
A questo punto è evidente quanto sia ideologica la posizione di chi, in un ambito connotato da emozioni così violente, pretenda di mantenere una sorta di obiettività attenendosi esclusivamente ai "fatti" o alla presenza di indicatori che sono quasi sempre in sé aspecifici e che assumono invece una rilevanza ed un significato solo nel contesto di un ascolto di tipo empatico.
In questo modo viene a costituirsi una metodologia di lavoro che privilegia le componenti empatiche ed emotive del processo conoscitivo senza peraltro rinunciare, nel caso di una consulenza di tipo valutativo, alla necessità di prove di falsificazione.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, infatti, l'ascolto empatico della vittima dell'abuso non solo non riduce la attendibilità della osservazione ma rende minima la reazione di difesa che passa attraverso la riduzione delle funzioni conoscitive dovuta al forte impatto emotivo che il rapporto con la vittima dell'abuso genera.
Questo atteggiamento emotivo è peraltro il più idoneo ad accertare la presenza di spinte istigative o di false denuncie. Anche in questi casi infatti un atteggiamento di condivisione tra il consulente e la vittima dell'abuso evita i danni della violenza psicologica messa in atto dall'adulto istigante.
Un'indagine condotta con criteri di estrema superficialità non giunge di solito ad alcuna acquisizione significativa, proprio per lâindisponibilità della vittima a rapportarsi con un osservatore che gli fa mancare il contatto, e quindi, il contenimento necessario a non farlo sentire solo con le proprie devastanti esperienze.
I risultati di accertamenti privi di empatia sono peraltro non solo poveri di contenuti ma portatori di una nuova esperienza traumatica a danno dell'abusato.
Claudio Foti e Cristina Roccia, del Centro Studi Hansel e Gretel di Torino (4), hanno steso una sorta di Decalogo sull'ascolto del minore vittima o potenziale vittima di abusi che ben si attaglia alla posizione che lo psicologo consultoriale dovrebbe avere quando si trova di fronte alla vittima di un possibile abuso.
1.Ricordare che la parola è il principale strumento a disposizione del minore per difendersi dall'adulto abusante ed è anche il principale strumento a disposizione degli operatori.
2. Non disprezzare il minore pensando che sia strutturalmente portato alla menzogna e alla costruzione fantastica.
3. Non temere di danneggiare il minore affrontando direttamente i problemi.
4. Non attribuire al minore i problemi soggettivi e le difficoltà emozionali a trattare la sessualità, problemi e difficoltà che possono essere invece dell'operatore.
5. Non delegare ad operatori di altre istituzioni il compito di ascoltare il minore.
6. Mantenere una posizione di ricettività nei confronti del minore senza anticipare nella interazione con lui situazioni o aspetti che possano condizionare l'acquisizione dei dati.
7. Usare un linguaggio schietto e adeguato all'età del minore e un atteggiamento naturale e privo di inibizioni.
8. Empatizzare con le emozioni del minore e con i suoi sentimenti, la sua sofferenza e il suo disagio.
9. Nell'interazione con il minore mantenere il contatto con le proprie emozioni, sia positive sia negative.
10. Non sottovalutare la complessità dell'interazione con il minore.
Quello consultoriale dovrebbe essere quindi un lavoro di "assessment", una sorta di collegamento tra l'evento traumatico e la sua elaborazione. Occorre evitare il rischio gravissimo che l'intero processo elaborativo possa interrompersi, senza lasciare spazio ad una successiva presa in carico. Per far questo occorre procedere oltre la rappresentazione traumatica, oltre l'episodio stesso di abuso. E questo è appunto possibile solo attraverso uno stile di osservazione partecipe della sofferenza dell'abusato (ed eventualmente della sua famiglia), un atteggiamento di ascolto che permetta la costruzione di uno spazio potenziale in cui il bambino trovi le condizioni per fare una nuova esperienza di attaccamento sana. Lo psicologo del Consultorio deve quindi essere una sorta di "presenza transizionale" (1) che lavori al fine di permettere di trovare o ritrovare le parole giuste per "nominare" quanto è accaduto. Solo offrendo l'opportunità al bambino di riconoscere i suoi bisogni primitivi e di promuovere la sua capacità di rappresentare simbolicamente è possibile sostenere le sue stesse capacità di rispondere creativamente al trauma.
Compito fondamentale sarà quindi quello di ripercorrere con l'abusato un lungo tratto di maturazione emotiva, per far sì che là dove era un oggetto interno parassitario e distruttore, possa installarsi in sua vece un oggetto comprensivo e rispettoso (5).
 

Bibliografia
1 - Carratelli, Di Cori e Sabatello , "Primum non nocere" : la costruzione di una cornice terapeutica nella valutazione del bambino vittima di abuso - Intervento presentato al Convegno "Le vittime e gli attori della violenza - Comprendere e curare per prevenire", Torino, 7 - 8 novembre 1997
2 - Dell'Antonio A., La consulenza psicologica per la tutela dei minori, NIS, Roma, 1989
3 - C. Foti, Il trauma psichico, in Minori e Giusizia, numero monografico dedicato all'Abuso sui Minori, 1997, pp.48-58
4 - C. Foti, C. Roccia, M. Rostagno, C'era un bambino che non era ascoltato, Centro Studi Hansel e Gretel, 1997
5 - G. Guasto, L'adultocentrismo nel trattamento istituzionale e terapeutico dell'abuso sessuale, testo pubblicato sulla Rivista Telematica Psychomedia, URL address: http.www.psychomedia.it, 21 maggio 1999
6 - G. Guasto, Il trave e la pagliuzza: le emozioni del CTU di fronte al minore abusato, Rielaborazione della relazione "Il Trauma dell'abuso sessuale: danno e ascolto. Campagna Nazionale dell'Associazione "Rompere il silenzio": "La sessualità dei minori tra silenzio e abuso", L'Aquila, 22 novembre 1997, testo pubblicato sulla Rivista Telematica Psychomedia, URL address: http.www.psychomedia.it, 14 aprile 1999

 

 

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