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Esperienze e contributi degli psicologi sanitari

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Lo psicologo e gli psicofarmaci: problemi e prospettive
Verso una "psicologia della psicofarmacologia" ?
di Gianni Tadolini


Questo articolo è stato pubblicato sulla Rivista dell'Istituto Italiano di Psicologia Individuale IL SAGITTARIO, n. 5, giugno 1999, pagg. 43 - 57.

Soprattutto in passato il dibattito sull’utilizzo degli psicofarmaci ha diviso non poco medici e psicologi. Sono esistite pregiudiziali ideologiche che traggono origine dagli antichi modelli del pensiero filosofico occidentale. Ad esempio, la dicotomia psiche-soma, comparsa soprattutto nella Grecia classica, viene tramandata fino a noi sul filone della cultura cristiana e trova il suo apogeo nella Filosofia Scolastica medioevale (San Tommaso d’Aquino). Poi, almeno dall’inizio del XIX secolo, la questione si trasferisce sul piano clinico: esiste un retroterra organico delle malattie mentali ? Esse sono il frutto di un evento intramentale immateriale o sono piuttosto la derivazione di un disfunzionamento chimico o anatomico del cervello ?
Una visione integrata e globale del funzionamento psichico, quindi psicosomatica, non data più di alcuni decenni e si è potuta sviluppare da un lato grazie alla riflessione del pensiero materialista e delle filosofie dell’analisi linguistica, dall’altro grazie ai successi delle scienze neuropsicologiche.
Noi crediamo che ormai il dibattito “organicismo sì - organicismo no” debba ritenersi superato, poiché è certo che il funzionamento psichico, almeno quello scientificamente rilevabile, non può esistere senza la sua base biologica.
La psichiatria è stata, in prevalenza, storicamente organicista ed ha visto nell’utilizzazione dello psicofarmaco lo strumento fondamentale per affrontare il disagio psichico. Solamente nei recenti anni settanta l’alienistica ha vissuto un capovolgimento epocale attraverso il movimento dell’antipsichiatria, che trasferiva il problema della salute mentale dal livello medico a quello esistenziale, politico e sociale. Oggi quell’interpretazione del problema è stata in gran parte assorbita e rielaborata da correnti di pensiero che sfociano nella prassi psicoterapeutica, mentre, in parallelo, si riaffacciano allo scenario scientifico-culturale diverse scuole di psichiatria biologica.
Ma al di là delle convinzioni personali che ognuno può avere, crediamo che una certa conoscenza della psicofarmacologia sia necessaria allo psicologo per due motivi: 1 - per poter interagire col medico inserendosi nel suo codice epistemologico e linguistico; 2 - per poter assistere il paziente nell’affrontare e comprendere le modificazioni di vissuto che l’utilizzazione dello psicofarmaco spesso comporta. E’ legittimo parlare, in questo senso, di psicologia della psicofarmacologia.

La psicofarmacologia è una parte della chimica clinica relativamente poco estesa in quanto studia molecole appartenenti, approssimativamente, a soli tre gruppi farmacologici: antidepressivi, ansiolitici (tranquillanti minori), neurolettici (tranquillanti maggiori).
E’ scientificamente certo, quindi sperimentalmente provato, che gli psicofarmaci siano sostanze realmente attive e capaci di indurre modificazioni dei toni dell’umore, dei sentimenti d’ansia e paura e, nel caso dei neurolettici, di agire in parte sul contenuto del pensiero.
Sottolineiamo l’aspetto dell’accertata attività perché, soprattutto in passato, l’azione degli psicofarmaci è stata, da alcuni, messa in dubbio e ricondotta a fenomeni di tipo suggestivo (come tuttora non è del tutto provata sperimentalmente l’azione dei rimedi omeopatici o di alcuni farmaci, anche se ampiamente diffusi a livello commerciale, ad esempio, i cosiddetti “ricostituenti” o quei preparati che si danno ai bambini per potenziare la memoria e il rendimento scolastico).
E’ dato statistico che gran parte dei disturbi dell’umore traggano beneficio dal trattamento con antidepressivi, se si individua la molecola ed il dosaggio appropriati e se si protrae il trattamento per il tempo necessario. Ancora, è esperienza che ognuno di noi può fare sulla propria persona: l’utilizzo di un tranquillante, a fronte di una intensa sensazione d’ansia, è in grado di ridarci sollievo e riposo entro un’ora.
Forniamo di seguito alcune informazioni sulle principali sostanze psicotrope, soprattutto allo scopo di stimolare spunti di riflessione per lo psicologo, e la curiosità di approfondire l’argomento ricorrendo a più ampi e dettagliati testi.

Gli ansiolitici

La maggior parte dei tranquillanti minori, come pure di molti farmaci ipnotici, cioè induttori del sonno, contiene un principio base, la benzodiazepina. Per chi ama la chimica: è un composto insaturo eterociclico a sette atomi di carbonio. “Benzo” indica la presenza, nella molecola, del nucleo benzenico, “diaz” indica l’anello eptagonale con due atomi di azoto, ed il suffisso “epina” evidenzia la presenza di sette atomi di carbonio.
Da questa molecola base derivano diverse sostanze capaci di agire rapidamente sugli stati d’ansia e sul sonno. Citiamo le più comuni, riportando anche i nomi commerciali con i quali la molecola è stata inserita inizialmente sul mercato farmaceutico.

Clordiazepossido (Librium, Lixin, Serenvita), Oxazepam (Adumbran, Limbial, Serpax), Diazepam (Ansiolin, Valium, Noan, Vatran, Aliseum, Tranquirit), Nitrazepam (Mogadon, ipnotico), Bromazepam (Lexotan), Clordemetildiazepam (En), Ketazolam (Anseren), Flunitrazepam (Roipnol, ipnotico), Alprazolam (Xanax, Frontal), Lorazepam (Tavor, Control, Lorans), Flurazepam (Flunox, Dalmadorm, Flunox, Felison, ipnotici), Triazolam (Halcion, Songar, ipnotici), Lormetazepam (Minias, ipnotico), Temazepam (Euipnos, ipnotico).

La caratteristica fondamentale di tutti questi composti è appunto quella di ledere l’ansia, rilassare la muscolatura, facilitare il sonno.
Dal punto di vista tossicologico le benzodiazepine non presentano seri problemi. In generale sono ben tollerate e gli effetti collaterali negativi sono minimi. Importante è riuscire a stabilire un dosaggio terapeutico efficace, ma non eccessivo, soggetto per soggetto. Una dose media attiva, approssimativamente, va dai 5 mg. di una benzodiazepina a bassa potenza (es. diazepam, commercialmente Valim 5), ai 2,50 mg. di una a media potenza (es. lorazepam, commercialmente Tavor 2,50), ai 0,50 mg. di una ad alta potenza (es. alprazolam, commercialmente Xanax 0,50).

Le benzodiazepine devono essere considerate una delle più importanti scoperte farmacologiche del XX secolo. Il loro significato clinico è stato, ed è tuttora, importantissimo: rappresentano la risposta farmacologica più rapida in tutte quelle forme morbose in cui l’ansia o l’insonnia sono la costante di maggior rilevanza.
Un pregio delle benzodiazepine è l’alta maneggevolezza che consente di prescriverle al paziente ambulatoriale senza rischiare gli effetti indesiderati, soprattutto di tipo neurologico, che invece si possono presentare con altre sostanze sedative (neurolettici).
Come agiscono le benzodiazepine ?
La molecola base, sintetizzata nel 1957 da Leo Sternbach, chimico della casa farmaceutica Roche, fu prima sperimentata da Lowel Randall su cavie animali, poi su se stesso e, gradatamente, su gruppi umani sia in studi aperti che randomizzati. Gli effetti tranquillanti e miorilassanti balzarono immediatamente all’evidenza, ma per molto tempo il meccanismo d’azione della molecola restò ignoto.
Solo nel 1967 alcuni ricercatori dei laboratori Roche di Basilea riuscirono ad appurare che un’alta concentrazione di sostanza attiva si riscontrava nelle cellule nervose di quella parte del cervello detta sistema limbico. Già da molto tempo si conosceva l’importanza del sistema limbico nelle reazioni emotive, ma i meccanismi biochimici che consentivano alla benzodiazepina di fissarsi sulle cellule nervose, attenuando l’intensità delle manifestazioni emotive, restavano inesplorati.
Tra il 1967 e il 1970 all’Istituto di Fisiologia dell’Università di Heidelberg, si realizzò una scoperta di eccezionale importanza: il significato dell’acido gamma-aminobutirrico (GABA) per il funzionamento del neurone.
Dal corpo cellulare del neurone si diramano ramificazioni diverse (assone e dendriti) che pongono fra loro in connessione le varie cellule nervose attraverso una formazione vescicolare detta sinapsi. Grazie ad essa, tra un neurone e l’altro, esiste un continuo scambio di messaggi (informazioni) che si presentano sia come depolarizzazioni di potenziale elettrico, sia come reazioni di natura chimica. I composti organici endogeni che rendono possibile il sistema segnaletico tra neurone e neurone vengono detti neurotrasmettitori. Questi possono avere funzione stimolante o funzione inibente, cioè favorire o scoraggiare la trasmissione di un “impulso informativo”. Il GABA, ad esempio, ha sempre azione inibente, mentre l’acido glutammico ha azione stimolante. I neurotrasmettitori inibenti diminuiscono le interazioni elettriche tra neurone e neurone, gli stimolanti le aumentano.
Alcuni esperimenti condotti ad Heidelberg dimostrarono che iniettando nelle cavie della picrotossina si poteva produrre sperimentalmente un comportamento eccitato ed episodi convulsivi, proprio perché la picrotossina occupava i recettori post-sinaptici (parti della membrana del neurone preposte a ricevere il neurotrasmettitore) del GABA, impedendone il funzionamento e, di conseguenza, le proprietà inibitorie.
Tra il 1973 ed il 1976 un gruppo di ricerca composto da Haefely, Polc, Schaffner e l’italiano Pieri, dei laboratori Hoffmann, riprese gli studi iniziati ad Heidelberg sul rapporto GABA-recettore ed iniettò in cavia una benzodiazepina ipotizzando che la sostanza rafforzasse la fissazione del GABA sul suo recettore post-sinaptico. Ma l’ipotesi ebbe conferma solo nel 1977, quando due gruppi di ricerca, il primo condotto da Braestruy a Copenaghen, il secondo da Möhler a Basilea, individuarono grosse molecole recettoriali, presenti in gran numero sulla membrana neuronale, soprattutto in prossimità dei siti di recezione GABA-ergica, che, incontrando una benzodiazepina, si fissavano ad essa impedendo al GABA stesso, per sovrapposizione, di allontanarsi dal proprio recettore nei normali tempi fisiologici. Al microscopio elettronico fu possibile visualizzare, marcando del diazepam con radioisotopi, l’incontro tra la benzodiazepina e la propria molecola recettoriale e l’effetto “cancello” che tale unione produceva sulla vescicola recettoriale contenente il GABA.
A questo punto il quadro era completo: la benzodiazepina veniva captata da una sostanza proteica in prossimità del recettore del GABA, si espandeva oltre i bordi del recettore stesso e costringeva il GABA a restare fissato nel suo sito per un tempo relativamente lungo.
La pratica clinica si rese presto conto che le benzodiazepine, grazie alla loro selettività unicamente GABA-ergica, non interagendo cioè in maniera marcata con altri sistemi neurotrasmettitoriali, erano sostanze altamente maneggevoli e non producevano gli effetti collaterali che frequentemente si verificano con i neurolettici (effetti sul Sistema Nervoso Extrapiramidale) e con alcuni antidepressivi (effetti sulla trasmissione acetilcolinergica), come vedremo nei seguenti paragrafi.

Gli antidepressivi

Compaiono sul mercato del farmaco poco prima dei tranquillanti. Il potere antidepressivo di alcune molecole venne scoperto casualmente osservando che gli individui ospedalizzati nei sanatori avevano un aumento del tono dell’umore quando venivano trattati con un noto antitubercolare: l’isoniazide, e con un suo derivato, l’iproniazide.
Nel 1953 una fotografia pubblicata dalla Associated Press mostrava affascinanti figure femminili, ricoverate in un ospedale per malati di tubercolosi, che danzavano con allegria. Una didascalia sottostante diceva: “qualche mese fa qui si potevano sentire solo i colpi di tosse dei malati di tubercolosi che, uno dopo l’altro, si spegnevano lentamente”. La fotografia annunciava appunto l’immissione sul mercato farmaceutico dell’iproniazide.
Ciò che ancora non si sapeva era che il buon umore delle ricoverate non dipendeva dal fatto che la malattia polmonare fosse in miglioramento, ma dall’azione antidepressiva e psicostimolante dell’iproniazide, come poi qualche anno dopo Nathan Kline riuscì a dimostrare.
Da questa iniziale molecola vennero sintetizzati gli IMAO (Inibitori delle Mono-Amino-Ossidasi), farmaci che alzano i livelli plasmatici di serotonina, nor-adrenalina e dopamina inibendo appunto le mono-amino-ossidasi, enzimi che riducono, attraverso un processo di ossidazione, la concentrazione ematica dei suddetti neurotrasmettitori.
L’efficacia degli IMAO fece supporre che le depressioni fossero da porre in correlazione ad una ridotta disponibilità, da parte dell’organismo, soprattutto di serotonina e nor-adrenalina, sostanze organiche, con nucleo chimico simile a quello dell’amoniaca, che giocano un ruolo importante nella regolazione del tono dell’umore, dell’ansia, del sonno, e della fame.
Gli IMAO (isocarbossazide, fanelzina, nialamide) vennero però quasi abbandonati per i pesanti effetti collaterali, soprattutto di tipo ipertensivo, che sovente producevano e lasciarono il posto ai più maneggevoli triciclici, il cui capostipite è la imipramina, già sintetizzata ancor prima degli IMAO dal chimico svizzero Roland Kuhn.
Lo statunitense Donald Klein iniziò la sperimentazione della “molecola di Kuhn” nel 1959 ed osservò che le capacità antidepressive del farmaco non si associavano ad effetti di tipo ipertensivo.
La famiglia dei triciclici si arricchì, in pochi anni, di altre molecole (clomipramina, il noto Anafranil, amitriptilina, il Laroxil, nortriptilina, il Noritren) simili alla molecola “madre” in quanto a meccanismo d’azione e struttura chimica.
Il meccanismo d’azione dei triciclici consiste nell’inibizione del meccanismo di ricaptazione (uptake) dei neurotrasmettitori: i neuroni serotoninergici e nor-adrenergici regolano la produzione di serotonina e nor-adrenalina distruggendo le stesse per ricaptazione, cioè attraverso un processo simile ad una fagocitosi. Inibendo il meccanismo di uptake si lascia a disposizione del recettore post-sinaptico un maggior quantitativo di neurotrasmettitore.
E’ ancora in discussione se sia proprio questo meccanismo a causare l’azione antidepressiva: sembra di no. Perché l’azione antidepressiva tarda circa un mese a manifestarsi, quando il meccanismo di uptake avviene entro poche ore dall’assunzione del farmaco ? Studi recenti dimostrano che l’azione antidepressiva va forse correlata al meccanismo di desensibilizzazione dei beta-recettori post-sinaptici e dei recettori 5-HT alterati da una ipersensibilizzazione recettoriale. Questo fenomeno di adattamento, denominato “down regulation”, sembra indispensabile per la ristabilizzazione del tono umorale e si realizza a notevole distanza di tempo dall’inizio del trattamento.
Ma il grande problema degli antidepressivi, sia IMAO che triciclici, è rappresentato dall’alto numero di effetti collaterali negativi che la loro utilizzazione comporta. Nel gergo farmacologico sono definiti “farmaci sporchi”, per quella mancanza di selettività d’azione che li porta ad agire anche su sistemi neurotrasmettitoriali che poco hanno a che fare con la sintomatologia depressiva.
In tal senso il sistema neurobiochimico collaterale maggiormente implicato è quello dell’acetilcolina. L’azione anticolinergica degli antidepressivi dà origine ad una serie di disturbi che, in alcuni casi, possono essere relativamente gravi.
Nel decennio che va dal 1970 al 1890 la ricerca farmaceutica si concentrò sull’individuazione di molecole antidepressive capaci di evitare l’azione anticolinergica.
Finalmente, nel 1987, fu posta sul mercato la fluoxetina, il famoso Prozac, la prima sostanza in grado di agire in maniera selettiva sul solo sistema serotoninergico.
La storia del Prozac é tanto affascinante quanto significativa. Il Prozac fu sintetizzato in maniera mirata. I ricercatori della Eli Lilly si dedicarono infatti per anni alla costruzione di una molecola specifica che potesse interagire solo con la serotonina: nacque la fluoxetina.
Ecco la storia. Negli anni sessanta il farmacologo Ray Fuller iniziò, presso i laboratori Lilly, ricerche chimiche su varie molecole antidepressive al fine di ottenere una nuova formula capace di non interferire con la neurotrasmissione colinergica. Fuller, che aveva in precedenza lavorato sul ratto da laboratorio nel corso di ricerche sul sistema della serotonina, venne a contatto col chimico scozzese Brian Molloy, veterano degli studi sul ruolo dell’acetilcolina nella regolazione delle funzioni cardiocircolatorie. Fuller convinse Molloy ad effettuare un insieme di esperimenti finalizzati all’individuazione di un principio attivo capace di influenzare serotonina e nor-adrenalina (quindi di probabile capacità antidepressiva) senza interferire con la trasmissione colinergica.
La famiglia farmacologica di riferimento per gli studi sui farmaci psicoattivi era considerata, in quegli anni, quella degli antistaminici e fu da lì che Molloy volle partire.
Si trattava ora di approntare un modello utile sull’animale da laboratorio. Lavorava alla Lilly il biologo Robert Rathbun che coordinava un gruppo di studio denominato “gruppo di studio sul comportamento del topo”. Rathbun sapeva che vi erano alcuni antistamici che non influenzano il sistema colinergico. Molloy, partendo dalle conoscenze di Rathbun, cominciò a dividere le molecole che interagiscono solo con l’istamina da quelle che influenzano anche l’acetilcolina ed arrivò ad enucleare un gruppo farmacologico antistaminico privo di effetti anticolinergici. Ma il fatto di aver circoscritto un nucleo antistamico non anticolinergico non era di per sè un successo al fine di trovare molecole antidepressive.
Forse fu il caso ad aiutare Brian Molloy facendogli incontrare due ricercatori che lavoravano in ambito neuroscientifico utilizzando il cervello di ratto e di topo: erano David Wong e Solomon Snyder. Il primo era un consulente della Lilly, il secondo lavorava alla Johns Hopkins University, era un neuropsicologo noto agli ambienti della psichiatria biologica ed era esperto di mappe neurotrasmettitoriali. Snyder era riuscito ad isolare terminazioni nervose (contenenti neurotrasmettitori) ancora attive, omogeneizzando cervelli di ratto e di topo. Aveva dato alle frazioni di omogeneizzato il nome di sinaptosomi.
L’aver trovato la possibilità tecnica di lavorare sui sinaptosomi di topo e di ratto sta alla base di ogni successo nelle ricerche di molecole antidepressive che via via si articolarono tra il 1970 ed il 1980. I passaggi tecnici sotto descritti presero il nome di “metodo binding-grinding”.
Il ratto vivo veniva inizialmente trattato con una molecola, ad esempio imipramina, e si attendeva che il farmaco avesse il tempo di legarsi con le terminazioni nervose (binding). Poi, ucciso il ratto, se ne omogeneizzava il cervello (grinding) e, attraverso una centrifugazione, si separavano le terminazioni ancora attive da quelle che non mostravano più attività biologica. Si poteva così lavorare sulle prime come se fossero cellule in vivo. A questo punto si mettavano in contatto i sinaptosomi trattati con l’imipramina con un neurotrasmettitore, solitamente nor-adrenalina e serotonina, e si osservava se e in che modo queste ultime venivano captate.
David Wong iniziò a sottoporre alle tecniche di Snyder le varie molecole sintetizzate da Molloy e scoprì che alcune di esse bloccavano selettivamente l’uptake della nor-adrenalina. Se il blocco dell’uptake avveniva a livello dei neuroni nor-adrenergici era lecito supporre che tra le molecole di Molloy esistessero bloccanti selettivi anche dell’uptake della serotonina. Wong concentrò la sua attenzione su un composto siglato con il codice “82816”: era la fluoxetina. All’inizio dell’estate del 1974 Molloy annunciò pubblicamente di aver scoperto un inibitore selettivo dell’uptake della serotonina augurandosi che il nuovo ritrovato potesse avere significato nella cura dei disturbi dell’umore. La fluoxetina cloridrato, col nome di Prozac, venne messa in commercio nel dicembre del 1987.
Da quella data ad oggi sono stati sintetizzati molti farmaci S.S.R.I. (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors). I principali, oltre la fluoxetina, sono: fluvoxamina, paroxetina, sertralina, citalopram, venlafaxina (questa ultima ha azione selettiva non solo a livello della serotonina, ma anche a livello della nor-adrenalina).
Anche se i nuovi farmaci non hanno un potere antidepressivo maggiore di quello dell’imipramina (che resta tuttora la principale molecola di confronto), sono senz’altro meglio tollerati ed accettati dal paziente, ed hanno dato una svolta radicale alla cura farmacologica di tutte le sindromi in cui è implicata la tonalità umorale.

Non possiamo chiudere il paragrafo sugli antidepressivi senza accennare ad una sostanza che sta prendendo piede sul mercato del farmaco ed inizia a minacciare, almeno a livello commerciale, il successo delle molecole di sintesi: è l’ipericina. L’ipericina è il principio attivo di una comune pianta di campagna, l’Hypericum Perforatum o Erba di San Giovanni.
I poteri psicoattivi di questa pianta sono noti fin dall’antichità, ma, soprattutto a seguito degli studi di Harold Bloomfield, Mikael Nordfors e Peter McWilliams all’inizio degli anni ’90, l’iperico arriva oggi a rappresentare, in Germania e negli Stati Uniti, quasi il 50 % della vendita degli antidepressivi. Tale successo è da attribuirsi principalmente a due fattori: il primo, l’ipericina è sicuramente attiva in molte forme di depressione lieve e moderata. Il secondo, è l’unico antidepressivo che si può acquistare senza ricetta medica.
Il suo meccanismo d’azione è approssimativamente simile a quello delle molecole di sintesi e, a dosaggi normali (circa 1 grammo al giorno di iperico titolato, pari al 0,3% di ipericina totale) non presenta effetti collaterali significativi sul piano clinico.
Il tempo per l’effetto antidepressivo è molto lungo (30 – 40 giorni), ma, avendo pazienza, si manifesta. Inoltre sembra che non si presentino seri rischi neppure per il neonato durante l’allattamento, in quanto i metaboliti della molecola sono poco attivi e poco presenti nel latte della madre che ne fa uso. Tuttavia non esistono ancora studi precisi in tal senso, però le prime osservazioni depongono a favore di un’alta maneggiabilità della sostanza.
I punteggi ottenuti in studi controllati in paragone all’imipramina danno valori antidepressivi assimilabili a quelli del triciclico.
Le principali ricerche sull’iperico sono contenute in uno studio prima pubblicato in America, poi in Italia nel 1997 (Bloomfield & Coll. – L’Iperico e la Depressione, Longanesi, Milano 1997).
Lo psicologo che affronta una forma depressiva può con tranquillità consigliare al paziente l’uso dell’iperico anche senza passare per il parere del medico, almeno finché saranno in atto le attuali disposizioni legislative.
Come abbiamo fatto per i tranquillanti citiamo anche le principali molecole antidepressive con i più noti relativi nomi commerciali.

Triciclici

Imipramina (Tofranil), Clomipramina (Anafranil), Amitriptilina (Laroxil,Triptizol, Adepril), Nortriptilina (Noritren, Vividyl), Desipramina (Nortimil).

S.S.R.I.

Fluoxetina (Prozac, Fluoxeren), Paroxetina (Seroxat, Sereupin), Fluvoxamina (Dumirox, Maveral, Fevarin), Citalopram (Elopram), Sertralina (Zoloft), Venlafaxina ( Efexor, biciclico – N.S.R.I.).

Altri

Minaprina (Cantor), Mianserina (Lantanon), Amineptina (Maneon), Trazodone (Trittico), Mirtazapina (Remeron).

I neurolettici

Sono una famiglia farmacologica relativamente omogenea il cui meccanismo d’azione si può ricondurre, con qualche approssimazione, al blocco dei recettori della dopamina. Sembra infatti che questo neurotrasmettore giochi un ruolo importante nelle psicosi e che la sua riduzione determini spesso la normalizzazione dei quadri deliranti e maniacali.
I primi neurolettici comparvero nel 1952, derivati da una molecola antistamica: la fenotiazina. Subito entrarono nella pratica psichiatrica ospedaliera trasformando, nel bene e nel male, il volto dei manicomi.
In Italia, il movimento di Psichiatria Democratica, molto attivo nel decennio 1970 - 1980, con Franco Basaglia, Giovanni Jervis, Gianfranco Minguzzi, Ferruccio Giacanelli, Stefano Mistura, ha ampiamente denunciato l’uso eccessivo ed improprio che spesso si è fatto dei neurolettici sui ricoverati dei nosocomi psichiatrici: di fatto i neurolettici sono stati utilizzati anche in sostituzione dei tradizionali “mezzi di contenzione” (camicia di forza, fissaggio al letto ecc.) rendendo possibile una “contenzione chimica” che, in fondo, non si discostava di molto da quella fisica. La clorpromazina e l’aloperidolo, molecole che rispondono ai noti prodotti commerciali Largactil e Serenase, hanno letteralmente invaso i reparti psichiatrici a partire dagli anni sessanta, creando un “popolo di neurolettizzati”, per usare una espressione di Benedetto Saraceno, che ha assunto sue peculiari caratteristiche comportamentali e iatrogene.
La disputa sul significato clinico, psicologico e politico del trattamento con neurolettici ha creato per anni, fra gli operatori psichiatrici, due schieramenti contrapposti. Oggi, anche i partigiani più irriducibili dell’una o l’altra fazione, tendono ad un riavvicinamento e ad una riduzione delle posizioni estreme verso un punto d’incontro che tenga in considerazione le diverse motivazioni delle parti, all’interno di un’analisi critica multifattoriale sull’assistenza psichiatrica.
Possiamo così riassumere, pur essendo consapevoli dell’eccessivo sintetismo, i temi più importanti che hanno caratterizzato il dibattito sui neurolettici, nelle diverse posizioni prò e contro.
- I neurolettici sono certamente utili in molti casi di disorganizzazione mentale dello psicotico.
- Hanno favorito l’apertura dei manicomi e riavvicinato il malato psichiatrico al vivere sociale.
- Hanno ridotto, in molti casi, la necessità di ricovero, consentendo la gestione del malato nel proprio ambiente sociale.
- Sono farmaci il cui utilizzo clinico è tecnicamente complesso e richiede profonde conoscenze specialistiche. Sono realmente utili solo in pochi quadri psicopatologici e, parallelamente, si prestano al rischio di una strumentalizzazione non clinica, di fatto messa in atto di frequente sulla popolazione nosocomiale.
- Danno facilmente effetti collaterali, in alcuni casi anche gravi ( sindrome neurolettica maligna, disturbi delle vie nervose extrapiramidali, obesità ecc.).
Indichiamo di seguito le principali molecole neurolettiche.

Promazina (Talofen), Clorpromazina (Largactil, Prozin), Aloperidolo (Serenase, Haldol), Benperidolo (Psicoben), Bromperidolo (Impromen), Clopentiolo (Sordinol), Flufenazina (Moditen, Anatensol), Perfenazina (Trilafon), Clotiapina (Entumin), Sulpiride (Dobren, Equilid, Isnamide, Normum), Pimozide (Orap).

Ma non possiamo concludere questa breve panoramica sulla psicofarmacologia senza fermarci a riflettere un momento sui contesti di possibile interazione tra trattamento farmacologico e prassi psicologica.
Lo psichiatra statunitense Peter Kramer è stato il primo a ricercare nell’azione dello psicofarmaco qualche cosa di più di una semplice azione chimica: il farmaco determina un vissuto, una esperienza psichica con la quale il paziente deve confrontarsi. Dal farmaco il paziente può apprendere qualcosa. L’opera più nota di Kramer si intitola appunto Listening to Prozac e descrive come i pazienti, che sotto l’effetto del Prozac facevano esperienza di una diversa percezione di se stessi e di un modo modificato di concepire la vita, affermassero di “apprendere” dal farmaco.
Questo modo di concepire la relazione farmaco-paziente, forse un po’ magica o comunque molto vicina alle culture che fanno uso rituale di piante psicoattive, è radicalmente innovativa rispetto a quella della psichiatria tradizionale e più aperta al discorso psicologico.
Noi abbiamo coniato l’espressione psicologia della psicofarmacologia per descrivere un contesto di studio e riflessione interdisciplinare, in cui possono entrare psicologo, psichiatra e farmacologo: una nuova branca della psicologia clinica e della psichiatria che si occupa di studiare la dimensione psicologica di fronte all’azione farmacologica.
Questo ha anche immediati risvolti pratici. Infatti, non di rado, il paziente resta disorientato di fronte agli effetti, positivi e non, che il farmaco determina. Potrebbe essere compito anche dello psicologo aiutare il paziente nell’elaborazione e nella consapevolizzazione dei nuovi vissuti.
Ancora: per il paziente trattato contemporaneamente con farmaci e terapia psicologica la frequenza di rapporto con lo psicologo è maggiore di quella con lo psichiatra o col medico di base. Lo psicologo vede l’utente non meno di una volta alla settimana, il medico circa una volta al mese, soprattutto quando quest’ultimo non vuol dare valenza psicologica al proprio intervento, come dovrebbe avvenire nelle azioni terapeutiche concordate. Quindi è lo psicologo che può controllare più da vicino le graduali trasformazioni sintomatologiche e, se è necessario, informarne il medico.

Bibliografia minima e testi consigliati per l’approfondimento

Bressa G. Chimica per la Mente, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993
Rovetto F. Psicofarmacologia per Psicologi, Franco Angeli, Milano 1993
Saraceno . Uso Razionale degli Psicofarmaci, Ed. a cura dell’Istituto di
Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Milano 1991
Smeraldi E. I Disturbi dell’Umore, Edi-Ermes, Milano 1993
Tadolini G. Gli Effetti Collaterali degli Antidepressivi, Ed. a cura
Amore M. dell’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Forlì, Forlì 1997

Note sull’autore

Svolge dal 1978 la professione di psicologo a Forlì. Parallelamente all’attività clinica coordina la Sezione di Neuroscienze dell’Associazione per lo Studio della Psicologia e delle Neuroscienze “Gian Mario Balzarini” e collabora con l’Unità di Farmacologia Comportamentale del Laboratorio di Neurofarmacologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano.

 

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