Lo psicologo e gli psicofarmaci:
problemi e prospettive
Verso una "psicologia della psicofarmacologia" ?
di Gianni Tadolini
Questo articolo è stato pubblicato sulla Rivista dell'Istituto
Italiano di Psicologia Individuale IL SAGITTARIO, n. 5, giugno 1999,
pagg. 43 - 57.
Soprattutto in passato il dibattito sull’utilizzo
degli psicofarmaci ha diviso non poco medici e psicologi. Sono esistite
pregiudiziali ideologiche che traggono origine dagli antichi modelli
del pensiero filosofico occidentale. Ad esempio, la dicotomia psiche-soma,
comparsa soprattutto nella Grecia classica, viene tramandata fino
a noi sul filone della cultura cristiana e trova il suo apogeo nella
Filosofia Scolastica medioevale (San Tommaso d’Aquino). Poi,
almeno dall’inizio del XIX secolo, la questione si trasferisce
sul piano clinico: esiste un retroterra organico delle malattie mentali
? Esse sono il frutto di un evento intramentale immateriale o sono
piuttosto la derivazione di un disfunzionamento chimico o anatomico
del cervello ?
Una visione integrata e globale del funzionamento psichico, quindi
psicosomatica, non data più di alcuni decenni e si è
potuta sviluppare da un lato grazie alla riflessione del pensiero
materialista e delle filosofie dell’analisi linguistica, dall’altro
grazie ai successi delle scienze neuropsicologiche.
Noi crediamo che ormai il dibattito “organicismo sì -
organicismo no” debba ritenersi superato, poiché è
certo che il funzionamento psichico, almeno quello scientificamente
rilevabile, non può esistere senza la sua base biologica.
La psichiatria è stata, in prevalenza, storicamente organicista
ed ha visto nell’utilizzazione dello psicofarmaco lo strumento
fondamentale per affrontare il disagio psichico. Solamente nei recenti
anni settanta l’alienistica ha vissuto un capovolgimento epocale
attraverso il movimento dell’antipsichiatria, che trasferiva
il problema della salute mentale dal livello medico a quello esistenziale,
politico e sociale. Oggi quell’interpretazione del problema
è stata in gran parte assorbita e rielaborata da correnti di
pensiero che sfociano nella prassi psicoterapeutica, mentre, in parallelo,
si riaffacciano allo scenario scientifico-culturale diverse scuole
di psichiatria biologica.
Ma al di là delle convinzioni personali che ognuno può
avere, crediamo che una certa conoscenza della psicofarmacologia sia
necessaria allo psicologo per due motivi: 1 - per poter interagire
col medico inserendosi nel suo codice epistemologico e linguistico;
2 - per poter assistere il paziente nell’affrontare e comprendere
le modificazioni di vissuto che l’utilizzazione dello psicofarmaco
spesso comporta. E’ legittimo parlare, in questo senso, di psicologia
della psicofarmacologia.
La psicofarmacologia è una parte della chimica
clinica relativamente poco estesa in quanto studia molecole appartenenti,
approssimativamente, a soli tre gruppi farmacologici: antidepressivi,
ansiolitici (tranquillanti minori), neurolettici (tranquillanti maggiori).
E’ scientificamente certo, quindi sperimentalmente provato,
che gli psicofarmaci siano sostanze realmente attive e capaci di indurre
modificazioni dei toni dell’umore, dei sentimenti d’ansia
e paura e, nel caso dei neurolettici, di agire in parte sul contenuto
del pensiero.
Sottolineiamo l’aspetto dell’accertata attività
perché, soprattutto in passato, l’azione degli psicofarmaci
è stata, da alcuni, messa in dubbio e ricondotta a fenomeni
di tipo suggestivo (come tuttora non è del tutto provata sperimentalmente
l’azione dei rimedi omeopatici o di alcuni farmaci, anche se
ampiamente diffusi a livello commerciale, ad esempio, i cosiddetti
“ricostituenti” o quei preparati che si danno ai bambini
per potenziare la memoria e il rendimento scolastico).
E’ dato statistico che gran parte dei disturbi dell’umore
traggano beneficio dal trattamento con antidepressivi, se si individua
la molecola ed il dosaggio appropriati e se si protrae il trattamento
per il tempo necessario. Ancora, è esperienza che ognuno di
noi può fare sulla propria persona: l’utilizzo di un
tranquillante, a fronte di una intensa sensazione d’ansia, è
in grado di ridarci sollievo e riposo entro un’ora.
Forniamo di seguito alcune informazioni sulle principali sostanze
psicotrope, soprattutto allo scopo di stimolare spunti di riflessione
per lo psicologo, e la curiosità di approfondire l’argomento
ricorrendo a più ampi e dettagliati testi.
Gli ansiolitici
La maggior parte dei tranquillanti minori, come pure di molti farmaci
ipnotici, cioè induttori del sonno, contiene un principio base,
la benzodiazepina. Per chi ama la chimica: è un composto insaturo
eterociclico a sette atomi di carbonio. “Benzo” indica
la presenza, nella molecola, del nucleo benzenico, “diaz”
indica l’anello eptagonale con due atomi di azoto, ed il suffisso
“epina” evidenzia la presenza di sette atomi di carbonio.
Da questa molecola base derivano diverse sostanze capaci di agire
rapidamente sugli stati d’ansia e sul sonno. Citiamo le più
comuni, riportando anche i nomi commerciali con i quali la molecola
è stata inserita inizialmente sul mercato farmaceutico.
Clordiazepossido (Librium, Lixin, Serenvita), Oxazepam (Adumbran, Limbial, Serpax), Diazepam (Ansiolin, Valium, Noan, Vatran, Aliseum, Tranquirit), Nitrazepam (Mogadon, ipnotico), Bromazepam (Lexotan), Clordemetildiazepam (En), Ketazolam (Anseren), Flunitrazepam (Roipnol, ipnotico), Alprazolam (Xanax, Frontal), Lorazepam (Tavor, Control, Lorans), Flurazepam (Flunox, Dalmadorm, Flunox, Felison, ipnotici), Triazolam (Halcion, Songar, ipnotici), Lormetazepam (Minias, ipnotico), Temazepam (Euipnos, ipnotico).
La caratteristica fondamentale di tutti questi composti
è appunto quella di ledere l’ansia, rilassare la muscolatura,
facilitare il sonno.
Dal punto di vista tossicologico le benzodiazepine non presentano
seri problemi. In generale sono ben tollerate e gli effetti collaterali
negativi sono minimi. Importante è riuscire a stabilire un
dosaggio terapeutico efficace, ma non eccessivo, soggetto per soggetto.
Una dose media attiva, approssimativamente, va dai 5 mg. di una benzodiazepina
a bassa potenza (es. diazepam, commercialmente Valim 5), ai 2,50 mg.
di una a media potenza (es. lorazepam, commercialmente Tavor 2,50),
ai 0,50 mg. di una ad alta potenza (es. alprazolam, commercialmente
Xanax 0,50).
Le benzodiazepine devono essere considerate una delle
più importanti scoperte farmacologiche del XX secolo. Il loro
significato clinico è stato, ed è tuttora, importantissimo:
rappresentano la risposta farmacologica più rapida in tutte
quelle forme morbose in cui l’ansia o l’insonnia sono
la costante di maggior rilevanza.
Un pregio delle benzodiazepine è l’alta maneggevolezza
che consente di prescriverle al paziente ambulatoriale senza rischiare
gli effetti indesiderati, soprattutto di tipo neurologico, che invece
si possono presentare con altre sostanze sedative (neurolettici).
Come agiscono le benzodiazepine ?
La molecola base, sintetizzata nel 1957 da Leo Sternbach, chimico
della casa farmaceutica Roche, fu prima sperimentata da Lowel Randall
su cavie animali, poi su se stesso e, gradatamente, su gruppi umani
sia in studi aperti che randomizzati. Gli effetti tranquillanti e
miorilassanti balzarono immediatamente all’evidenza, ma per
molto tempo il meccanismo d’azione della molecola restò
ignoto.
Solo nel 1967 alcuni ricercatori dei laboratori Roche di Basilea riuscirono
ad appurare che un’alta concentrazione di sostanza attiva si
riscontrava nelle cellule nervose di quella parte del cervello detta
sistema limbico. Già da molto tempo si conosceva l’importanza
del sistema limbico nelle reazioni emotive, ma i meccanismi biochimici
che consentivano alla benzodiazepina di fissarsi sulle cellule nervose,
attenuando l’intensità delle manifestazioni emotive,
restavano inesplorati.
Tra il 1967 e il 1970 all’Istituto di Fisiologia dell’Università
di Heidelberg, si realizzò una scoperta di eccezionale importanza:
il significato dell’acido gamma-aminobutirrico (GABA) per il
funzionamento del neurone.
Dal corpo cellulare del neurone si diramano ramificazioni diverse
(assone e dendriti) che pongono fra loro in connessione le varie cellule
nervose attraverso una formazione vescicolare detta sinapsi. Grazie
ad essa, tra un neurone e l’altro, esiste un continuo scambio
di messaggi (informazioni) che si presentano sia come depolarizzazioni
di potenziale elettrico, sia come reazioni di natura chimica. I composti
organici endogeni che rendono possibile il sistema segnaletico tra
neurone e neurone vengono detti neurotrasmettitori. Questi possono
avere funzione stimolante o funzione inibente, cioè favorire
o scoraggiare la trasmissione di un “impulso informativo”.
Il GABA, ad esempio, ha sempre azione inibente, mentre l’acido
glutammico ha azione stimolante. I neurotrasmettitori inibenti diminuiscono
le interazioni elettriche tra neurone e neurone, gli stimolanti le
aumentano.
Alcuni esperimenti condotti ad Heidelberg dimostrarono che iniettando
nelle cavie della picrotossina si poteva produrre sperimentalmente
un comportamento eccitato ed episodi convulsivi, proprio perché
la picrotossina occupava i recettori post-sinaptici (parti della membrana
del neurone preposte a ricevere il neurotrasmettitore) del GABA, impedendone
il funzionamento e, di conseguenza, le proprietà inibitorie.
Tra il 1973 ed il 1976 un gruppo di ricerca composto da Haefely, Polc,
Schaffner e l’italiano Pieri, dei laboratori Hoffmann, riprese
gli studi iniziati ad Heidelberg sul rapporto GABA-recettore ed iniettò
in cavia una benzodiazepina ipotizzando che la sostanza rafforzasse
la fissazione del GABA sul suo recettore post-sinaptico. Ma l’ipotesi
ebbe conferma solo nel 1977, quando due gruppi di ricerca, il primo
condotto da Braestruy a Copenaghen, il secondo da Möhler a Basilea,
individuarono grosse molecole recettoriali, presenti in gran numero
sulla membrana neuronale, soprattutto in prossimità dei siti
di recezione GABA-ergica, che, incontrando una benzodiazepina, si
fissavano ad essa impedendo al GABA stesso, per sovrapposizione, di
allontanarsi dal proprio recettore nei normali tempi fisiologici.
Al microscopio elettronico fu possibile visualizzare, marcando del
diazepam con radioisotopi, l’incontro tra la benzodiazepina
e la propria molecola recettoriale e l’effetto “cancello”
che tale unione produceva sulla vescicola recettoriale contenente
il GABA.
A questo punto il quadro era completo: la benzodiazepina veniva captata
da una sostanza proteica in prossimità del recettore del GABA,
si espandeva oltre i bordi del recettore stesso e costringeva il GABA
a restare fissato nel suo sito per un tempo relativamente lungo.
La pratica clinica si rese presto conto che le benzodiazepine, grazie
alla loro selettività unicamente GABA-ergica, non interagendo
cioè in maniera marcata con altri sistemi neurotrasmettitoriali,
erano sostanze altamente maneggevoli e non producevano gli effetti
collaterali che frequentemente si verificano con i neurolettici (effetti
sul Sistema Nervoso Extrapiramidale) e con alcuni antidepressivi (effetti
sulla trasmissione acetilcolinergica), come vedremo nei seguenti paragrafi.
Gli antidepressivi
Compaiono sul mercato del farmaco poco prima dei
tranquillanti. Il potere antidepressivo di alcune molecole venne scoperto
casualmente osservando che gli individui ospedalizzati nei sanatori
avevano un aumento del tono dell’umore quando venivano trattati
con un noto antitubercolare: l’isoniazide, e con un suo derivato,
l’iproniazide.
Nel 1953 una fotografia pubblicata dalla Associated Press mostrava
affascinanti figure femminili, ricoverate in un ospedale per malati
di tubercolosi, che danzavano con allegria. Una didascalia sottostante
diceva: “qualche mese fa qui si potevano sentire solo i colpi
di tosse dei malati di tubercolosi che, uno dopo l’altro, si
spegnevano lentamente”. La fotografia annunciava appunto l’immissione
sul mercato farmaceutico dell’iproniazide.
Ciò che ancora non si sapeva era che il buon umore delle ricoverate
non dipendeva dal fatto che la malattia polmonare fosse in miglioramento,
ma dall’azione antidepressiva e psicostimolante dell’iproniazide,
come poi qualche anno dopo Nathan Kline riuscì a dimostrare.
Da questa iniziale molecola vennero sintetizzati gli IMAO (Inibitori
delle Mono-Amino-Ossidasi), farmaci che alzano i livelli plasmatici
di serotonina, nor-adrenalina e dopamina inibendo appunto le mono-amino-ossidasi,
enzimi che riducono, attraverso un processo di ossidazione, la concentrazione
ematica dei suddetti neurotrasmettitori.
L’efficacia degli IMAO fece supporre che le depressioni fossero
da porre in correlazione ad una ridotta disponibilità, da parte
dell’organismo, soprattutto di serotonina e nor-adrenalina,
sostanze organiche, con nucleo chimico simile a quello dell’amoniaca,
che giocano un ruolo importante nella regolazione del tono dell’umore,
dell’ansia, del sonno, e della fame.
Gli IMAO (isocarbossazide, fanelzina, nialamide) vennero però
quasi abbandonati per i pesanti effetti collaterali, soprattutto di
tipo ipertensivo, che sovente producevano e lasciarono il posto ai
più maneggevoli triciclici, il cui capostipite è la
imipramina, già sintetizzata ancor prima degli IMAO dal chimico
svizzero Roland Kuhn.
Lo statunitense Donald Klein iniziò la sperimentazione della
“molecola di Kuhn” nel 1959 ed osservò che le capacità
antidepressive del farmaco non si associavano ad effetti di tipo ipertensivo.
La famiglia dei triciclici si arricchì, in pochi anni, di altre
molecole (clomipramina, il noto Anafranil, amitriptilina, il Laroxil,
nortriptilina, il Noritren) simili alla molecola “madre”
in quanto a meccanismo d’azione e struttura chimica.
Il meccanismo d’azione dei triciclici consiste nell’inibizione
del meccanismo di ricaptazione (uptake) dei neurotrasmettitori: i
neuroni serotoninergici e nor-adrenergici regolano la produzione di
serotonina e nor-adrenalina distruggendo le stesse per ricaptazione,
cioè attraverso un processo simile ad una fagocitosi. Inibendo
il meccanismo di uptake si lascia a disposizione del recettore post-sinaptico
un maggior quantitativo di neurotrasmettitore.
E’ ancora in discussione se sia proprio questo meccanismo a
causare l’azione antidepressiva: sembra di no. Perché
l’azione antidepressiva tarda circa un mese a manifestarsi,
quando il meccanismo di uptake avviene entro poche ore dall’assunzione
del farmaco ? Studi recenti dimostrano che l’azione antidepressiva
va forse correlata al meccanismo di desensibilizzazione dei beta-recettori
post-sinaptici e dei recettori 5-HT alterati da una ipersensibilizzazione
recettoriale. Questo fenomeno di adattamento, denominato “down
regulation”, sembra indispensabile per la ristabilizzazione
del tono umorale e si realizza a notevole distanza di tempo dall’inizio
del trattamento.
Ma il grande problema degli antidepressivi, sia IMAO che triciclici,
è rappresentato dall’alto numero di effetti collaterali
negativi che la loro utilizzazione comporta. Nel gergo farmacologico
sono definiti “farmaci sporchi”, per quella mancanza di
selettività d’azione che li porta ad agire anche su sistemi
neurotrasmettitoriali che poco hanno a che fare con la sintomatologia
depressiva.
In tal senso il sistema neurobiochimico collaterale maggiormente implicato
è quello dell’acetilcolina. L’azione anticolinergica
degli antidepressivi dà origine ad una serie di disturbi che,
in alcuni casi, possono essere relativamente gravi.
Nel decennio che va dal 1970 al 1890 la ricerca farmaceutica si concentrò
sull’individuazione di molecole antidepressive capaci di evitare
l’azione anticolinergica.
Finalmente, nel 1987, fu posta sul mercato la fluoxetina, il famoso
Prozac, la prima sostanza in grado di agire in maniera selettiva sul
solo sistema serotoninergico.
La storia del Prozac é tanto affascinante quanto significativa.
Il Prozac fu sintetizzato in maniera mirata. I ricercatori della Eli
Lilly si dedicarono infatti per anni alla costruzione di una molecola
specifica che potesse interagire solo con la serotonina: nacque la
fluoxetina.
Ecco la storia. Negli anni sessanta il farmacologo Ray Fuller iniziò,
presso i laboratori Lilly, ricerche chimiche su varie molecole antidepressive
al fine di ottenere una nuova formula capace di non interferire con
la neurotrasmissione colinergica. Fuller, che aveva in precedenza
lavorato sul ratto da laboratorio nel corso di ricerche sul sistema
della serotonina, venne a contatto col chimico scozzese Brian Molloy,
veterano degli studi sul ruolo dell’acetilcolina nella regolazione
delle funzioni cardiocircolatorie. Fuller convinse Molloy ad effettuare
un insieme di esperimenti finalizzati all’individuazione di
un principio attivo capace di influenzare serotonina e nor-adrenalina
(quindi di probabile capacità antidepressiva) senza interferire
con la trasmissione colinergica.
La famiglia farmacologica di riferimento per gli studi sui farmaci
psicoattivi era considerata, in quegli anni, quella degli antistaminici
e fu da lì che Molloy volle partire.
Si trattava ora di approntare un modello utile sull’animale
da laboratorio. Lavorava alla Lilly il biologo Robert Rathbun che
coordinava un gruppo di studio denominato “gruppo di studio
sul comportamento del topo”. Rathbun sapeva che vi erano alcuni
antistamici che non influenzano il sistema colinergico. Molloy, partendo
dalle conoscenze di Rathbun, cominciò a dividere le molecole
che interagiscono solo con l’istamina da quelle che influenzano
anche l’acetilcolina ed arrivò ad enucleare un gruppo
farmacologico antistaminico privo di effetti anticolinergici. Ma il
fatto di aver circoscritto un nucleo antistamico non anticolinergico
non era di per sè un successo al fine di trovare molecole antidepressive.
Forse fu il caso ad aiutare Brian Molloy facendogli incontrare due
ricercatori che lavoravano in ambito neuroscientifico utilizzando
il cervello di ratto e di topo: erano David Wong e Solomon Snyder.
Il primo era un consulente della Lilly, il secondo lavorava alla Johns
Hopkins University, era un neuropsicologo noto agli ambienti della
psichiatria biologica ed era esperto di mappe neurotrasmettitoriali.
Snyder era riuscito ad isolare terminazioni nervose (contenenti neurotrasmettitori)
ancora attive, omogeneizzando cervelli di ratto e di topo. Aveva dato
alle frazioni di omogeneizzato il nome di sinaptosomi.
L’aver trovato la possibilità tecnica di lavorare sui
sinaptosomi di topo e di ratto sta alla base di ogni successo nelle
ricerche di molecole antidepressive che via via si articolarono tra
il 1970 ed il 1980. I passaggi tecnici sotto descritti presero il
nome di “metodo binding-grinding”.
Il ratto vivo veniva inizialmente trattato con una molecola, ad esempio
imipramina, e si attendeva che il farmaco avesse il tempo di legarsi
con le terminazioni nervose (binding). Poi, ucciso il ratto, se ne
omogeneizzava il cervello (grinding) e, attraverso una centrifugazione,
si separavano le terminazioni ancora attive da quelle che non mostravano
più attività biologica. Si poteva così lavorare
sulle prime come se fossero cellule in vivo. A questo punto si mettavano
in contatto i sinaptosomi trattati con l’imipramina con un neurotrasmettitore,
solitamente nor-adrenalina e serotonina, e si osservava se e in che
modo queste ultime venivano captate.
David Wong iniziò a sottoporre alle tecniche di Snyder le varie
molecole sintetizzate da Molloy e scoprì che alcune di esse
bloccavano selettivamente l’uptake della nor-adrenalina. Se
il blocco dell’uptake avveniva a livello dei neuroni nor-adrenergici
era lecito supporre che tra le molecole di Molloy esistessero bloccanti
selettivi anche dell’uptake della serotonina. Wong concentrò
la sua attenzione su un composto siglato con il codice “82816”:
era la fluoxetina. All’inizio dell’estate del 1974 Molloy
annunciò pubblicamente di aver scoperto un inibitore selettivo
dell’uptake della serotonina augurandosi che il nuovo ritrovato
potesse avere significato nella cura dei disturbi dell’umore.
La fluoxetina cloridrato, col nome di Prozac, venne messa in commercio
nel dicembre del 1987.
Da quella data ad oggi sono stati sintetizzati molti farmaci S.S.R.I.
(Selective Serotonin Reuptake Inhibitors). I principali, oltre la
fluoxetina, sono: fluvoxamina, paroxetina, sertralina, citalopram,
venlafaxina (questa ultima ha azione selettiva non solo a livello
della serotonina, ma anche a livello della nor-adrenalina).
Anche se i nuovi farmaci non hanno un potere antidepressivo maggiore
di quello dell’imipramina (che resta tuttora la principale molecola
di confronto), sono senz’altro meglio tollerati ed accettati
dal paziente, ed hanno dato una svolta radicale alla cura farmacologica
di tutte le sindromi in cui è implicata la tonalità
umorale.
Non possiamo chiudere il paragrafo sugli antidepressivi
senza accennare ad una sostanza che sta prendendo piede sul mercato
del farmaco ed inizia a minacciare, almeno a livello commerciale,
il successo delle molecole di sintesi: è l’ipericina.
L’ipericina è il principio attivo di una comune pianta
di campagna, l’Hypericum Perforatum o Erba di San Giovanni.
I poteri psicoattivi di questa pianta sono noti fin dall’antichità,
ma, soprattutto a seguito degli studi di Harold Bloomfield, Mikael
Nordfors e Peter McWilliams all’inizio degli anni ’90,
l’iperico arriva oggi a rappresentare, in Germania e negli Stati
Uniti, quasi il 50 % della vendita degli antidepressivi. Tale successo
è da attribuirsi principalmente a due fattori: il primo, l’ipericina
è sicuramente attiva in molte forme di depressione lieve e
moderata. Il secondo, è l’unico antidepressivo che si
può acquistare senza ricetta medica.
Il suo meccanismo d’azione è approssimativamente simile
a quello delle molecole di sintesi e, a dosaggi normali (circa 1 grammo
al giorno di iperico titolato, pari al 0,3% di ipericina totale) non
presenta effetti collaterali significativi sul piano clinico.
Il tempo per l’effetto antidepressivo è molto lungo (30
– 40 giorni), ma, avendo pazienza, si manifesta. Inoltre sembra
che non si presentino seri rischi neppure per il neonato durante l’allattamento,
in quanto i metaboliti della molecola sono poco attivi e poco presenti
nel latte della madre che ne fa uso. Tuttavia non esistono ancora
studi precisi in tal senso, però le prime osservazioni depongono
a favore di un’alta maneggiabilità della sostanza.
I punteggi ottenuti in studi controllati in paragone all’imipramina
danno valori antidepressivi assimilabili a quelli del triciclico.
Le principali ricerche sull’iperico sono contenute in uno studio
prima pubblicato in America, poi in Italia nel 1997 (Bloomfield &
Coll. – L’Iperico e la Depressione, Longanesi, Milano
1997).
Lo psicologo che affronta una forma depressiva può con tranquillità
consigliare al paziente l’uso dell’iperico anche senza
passare per il parere del medico, almeno finché saranno in
atto le attuali disposizioni legislative.
Come abbiamo fatto per i tranquillanti citiamo anche le principali
molecole antidepressive con i più noti relativi nomi commerciali.
Triciclici
Imipramina (Tofranil), Clomipramina (Anafranil),
Amitriptilina (Laroxil,Triptizol, Adepril), Nortriptilina (Noritren,
Vividyl), Desipramina (Nortimil).
S.S.R.I.
Fluoxetina (Prozac, Fluoxeren), Paroxetina (Seroxat,
Sereupin), Fluvoxamina (Dumirox, Maveral, Fevarin), Citalopram (Elopram),
Sertralina (Zoloft), Venlafaxina ( Efexor, biciclico – N.S.R.I.).
Altri
Minaprina (Cantor), Mianserina (Lantanon), Amineptina
(Maneon), Trazodone (Trittico), Mirtazapina (Remeron).
I neurolettici
Sono una famiglia farmacologica relativamente omogenea
il cui meccanismo d’azione si può ricondurre, con qualche
approssimazione, al blocco dei recettori della dopamina. Sembra infatti
che questo neurotrasmettore giochi un ruolo importante nelle psicosi
e che la sua riduzione determini spesso la normalizzazione dei quadri
deliranti e maniacali.
I primi neurolettici comparvero nel 1952, derivati da una molecola
antistamica: la fenotiazina. Subito entrarono nella pratica psichiatrica
ospedaliera trasformando, nel bene e nel male, il volto dei manicomi.
In Italia, il movimento di Psichiatria Democratica, molto attivo nel
decennio 1970 - 1980, con Franco Basaglia, Giovanni Jervis, Gianfranco
Minguzzi, Ferruccio Giacanelli, Stefano Mistura, ha ampiamente denunciato
l’uso eccessivo ed improprio che spesso si è fatto dei
neurolettici sui ricoverati dei nosocomi psichiatrici: di fatto i
neurolettici sono stati utilizzati anche in sostituzione dei tradizionali
“mezzi di contenzione” (camicia di forza, fissaggio al
letto ecc.) rendendo possibile una “contenzione chimica”
che, in fondo, non si discostava di molto da quella fisica. La clorpromazina
e l’aloperidolo, molecole che rispondono ai noti prodotti commerciali
Largactil e Serenase, hanno letteralmente invaso i reparti psichiatrici
a partire dagli anni sessanta, creando un “popolo di neurolettizzati”,
per usare una espressione di Benedetto Saraceno, che ha assunto sue
peculiari caratteristiche comportamentali e iatrogene.
La disputa sul significato clinico, psicologico e politico del trattamento
con neurolettici ha creato per anni, fra gli operatori psichiatrici,
due schieramenti contrapposti. Oggi, anche i partigiani più
irriducibili dell’una o l’altra fazione, tendono ad un
riavvicinamento e ad una riduzione delle posizioni estreme verso un
punto d’incontro che tenga in considerazione le diverse motivazioni
delle parti, all’interno di un’analisi critica multifattoriale
sull’assistenza psichiatrica.
Possiamo così riassumere, pur essendo consapevoli dell’eccessivo
sintetismo, i temi più importanti che hanno caratterizzato
il dibattito sui neurolettici, nelle diverse posizioni prò
e contro.
- I neurolettici sono certamente utili in molti casi di disorganizzazione
mentale dello psicotico.
- Hanno favorito l’apertura dei manicomi e riavvicinato il malato
psichiatrico al vivere sociale.
- Hanno ridotto, in molti casi, la necessità di ricovero, consentendo
la gestione del malato nel proprio ambiente sociale.
- Sono farmaci il cui utilizzo clinico è tecnicamente complesso
e richiede profonde conoscenze specialistiche. Sono realmente utili
solo in pochi quadri psicopatologici e, parallelamente, si prestano
al rischio di una strumentalizzazione non clinica, di fatto messa
in atto di frequente sulla popolazione nosocomiale.
- Danno facilmente effetti collaterali, in alcuni casi anche gravi
( sindrome neurolettica maligna, disturbi delle vie nervose extrapiramidali,
obesità ecc.).
Indichiamo di seguito le principali molecole neurolettiche.
Promazina (Talofen), Clorpromazina (Largactil, Prozin),
Aloperidolo (Serenase, Haldol), Benperidolo (Psicoben), Bromperidolo
(Impromen), Clopentiolo (Sordinol), Flufenazina (Moditen, Anatensol),
Perfenazina (Trilafon), Clotiapina (Entumin), Sulpiride (Dobren, Equilid,
Isnamide, Normum), Pimozide (Orap).
Ma non possiamo concludere questa breve panoramica
sulla psicofarmacologia senza fermarci a riflettere un momento sui
contesti di possibile interazione tra trattamento farmacologico e
prassi psicologica.
Lo psichiatra statunitense Peter Kramer è stato il primo a
ricercare nell’azione dello psicofarmaco qualche cosa di più
di una semplice azione chimica: il farmaco determina un vissuto, una
esperienza psichica con la quale il paziente deve confrontarsi. Dal
farmaco il paziente può apprendere qualcosa. L’opera
più nota di Kramer si intitola appunto Listening to Prozac
e descrive come i pazienti, che sotto l’effetto del Prozac facevano
esperienza di una diversa percezione di se stessi e di un modo modificato
di concepire la vita, affermassero di “apprendere” dal
farmaco.
Questo modo di concepire la relazione farmaco-paziente, forse un po’
magica o comunque molto vicina alle culture che fanno uso rituale
di piante psicoattive, è radicalmente innovativa rispetto a
quella della psichiatria tradizionale e più aperta al discorso
psicologico.
Noi abbiamo coniato l’espressione psicologia della psicofarmacologia
per descrivere un contesto di studio e riflessione interdisciplinare,
in cui possono entrare psicologo, psichiatra e farmacologo: una nuova
branca della psicologia clinica e della psichiatria che si occupa
di studiare la dimensione psicologica di fronte all’azione farmacologica.
Questo ha anche immediati risvolti pratici. Infatti, non di rado,
il paziente resta disorientato di fronte agli effetti, positivi e
non, che il farmaco determina. Potrebbe essere compito anche dello
psicologo aiutare il paziente nell’elaborazione e nella consapevolizzazione
dei nuovi vissuti.
Ancora: per il paziente trattato contemporaneamente con farmaci e
terapia psicologica la frequenza di rapporto con lo psicologo è
maggiore di quella con lo psichiatra o col medico di base. Lo psicologo
vede l’utente non meno di una volta alla settimana, il medico
circa una volta al mese, soprattutto quando quest’ultimo non
vuol dare valenza psicologica al proprio intervento, come dovrebbe
avvenire nelle azioni terapeutiche concordate. Quindi è lo
psicologo che può controllare più da vicino le graduali
trasformazioni sintomatologiche e, se è necessario, informarne
il medico.
Bibliografia minima e testi consigliati per l’approfondimento
Bressa G. Chimica per la Mente, La Nuova Italia Scientifica,
Roma 1993
Rovetto F. Psicofarmacologia per Psicologi, Franco Angeli, Milano
1993
Saraceno . Uso Razionale degli Psicofarmaci, Ed. a cura dell’Istituto
di
Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Milano 1991
Smeraldi E. I Disturbi dell’Umore, Edi-Ermes, Milano 1993
Tadolini G. Gli Effetti Collaterali degli Antidepressivi, Ed. a cura
Amore M. dell’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Forlì,
Forlì 1997
Note sull’autore
Svolge dal 1978 la professione di psicologo a Forlì. Parallelamente
all’attività clinica coordina la Sezione di Neuroscienze
dell’Associazione per lo Studio della Psicologia e delle Neuroscienze
“Gian Mario Balzarini” e collabora con l’Unità
di Farmacologia Comportamentale del Laboratorio di Neurofarmacologia
dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”
di Milano.