PROBLEMATICHE PSICOLOGICHE E RELAZIONALI
Di Maria Grazia Foschino Barbaro
(da "L'INFERMIERE E IL MALATO GRAVE" , A cura di Vito D'Alessandro.
Edizioni Camilliane. CAPITOLO I)
L'incontro con il morente implica il confronto
con tutta una serie di questioni di ordine etico, psicologico e spirituale
che si scontrano, nella realtà delle nostre istituzioni sanitarie,
con una tradizione culturale fortemente riduttiva e parziale.
La malattia grave è un evento drammatico che ha l'effetto
di esplosione devastante nella vita psicologica, familiare e sociale
di una persona. E' una condizione che obbliga tutte le persone implicate,
compresi gli operatori assistenziali, ad un confronto difficile con
gli aspetti più dolorosi dell'esistenza: la sofferenza,
l'invalidità, la perdita, la morte.
Eppure nella prassi quotidiana la complessità, la problematicità
e la drammaticità di questa condizione, si perdono completamente:
la malattia viene spogliata di significato e ridotta, soltanto, ad
un infausto evento biologico.
Abitualmente accade che il paziente, dopo il doloroso e tormentato
iter diagnostico, arriva al servizio assistenziale esibendo i sintomi,
la malattia, il corpo stesso come qualcosa che non gli appartiene,
estraneo, violento, con il vissuto di una inspiegabile punizione.
Dall'altra parte gli operatori si preoccupano del corpo, agiscono
sul corpo, nel tentativo disperato di estirpare ãil male"
e sfidare la morte.
In questo cammino frenetico, la sofferenza esistenziale non trova
spazio; nei casi in cui diventa dilagante, si aggiunge l'opera
di altri specialisti, gli psichiatri per sedare una angoscia che è
solo una spia del dramma vissuto a livello personale: la persona viene
divisa e frammentata ancora e l'intervento si scorpora ulteriormente.
Se la malattia si rivela inguaribile tutto appare inutile e senza
scopo: impotenti, si rinuncia anche all'assistenza, in attesa
che la morte sopraggiunga.
L'incontro tra il morente, la famiglia e lo staff, che si definisce
"ssistenziale", si esaurisce in un silenzioso imbarazzo
riempito da sguardi mancati, parole non dette, opportunità
non colte, speranze disattese· e risulta frustrante per tutte
le figure implicate.
Appare evidente perciò che la vera incurabilità del
morente, al di là della preclusa guaribilità e della
natura dei sintomi, è l'effetto soprattutto della parziale
e mancata assistenza alla persona nella sua globalità. E'
funzione della incomprensione della situazione esistenziale del malato
e della sua soggettività.
E' l'esito della parzialità delle risposte offerte
dagli operatori.
L'obiettiva complessità di un campo così problematico
impone con urgenza l'elaborazione di modelli concettuali e operativi
più adeguati ed efficaci. A questo scopo non serve un'ulteriore
formazione specialistica. Piuttosto è utile ispirarsi ad una
visione unitaria ed integrata dell'uomo, della malattia e della
salute. Una diversa formazione, pur nella specificità personale
di ognuno, rappresenta l'unica garanzia affinchè la richiesta
accorata di "ssistenza", da parte del morente e della
sua famiglia, possa essere percepita, accolta e ridefinita in una
forma più aderente a tutti i bisogni che esprime. L'efficacia
e la validità dell'assistenza al malato grave, non può
essere misurata soltanto sull'adeguatezza delle prestazioni
erogate o in base alla gestione attiva della malattia, da parte del
paziente o della famiglia, ma sarà il risultato di una relazione
interpersonale preziosa, costruttiva e significativa tra morente,
sistema familiare ed operatori.
Su questo sfondo si colloca la nostra riflessione sulle problematiche
specifiche avviate dalla malattia grave, anche se, per facilità
di esposizione, affronteremo separatamente il punto di vista del morente,
della famiglia e degli operatori assistenziali.
L'obiettivo è quello di fornire una visione d'insieme
della dimensione psicologica, al cui interno ognuno possa sviluppare,
recuperando il proprio bagaglio culturale e personale, una immagine
rinnovata della propria professionalità.
I - LA PERSONA MALATA
La maggior parte della letteratura psicologica sul
morente, deriva dagli studi empirici che hanno evidenziato soprattutto
i sentimenti, gli atteggiamenti o i bisogni assistenziali che caratterizzano
i diversi stadi di adattamento alla malattia. Tra questi è
d'obbligo citare, per la rilevanza e la diffusione avuta, la
ricerca condotta dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kubler-Ross che
ha descritto l'evoluzione psichica del morente in cinque fasi:
negazione_ collera _ patteggiamento _ depressione _ accettazione.
Personalmente ritengo che esistano notevoli differenze individuali
nel reagire emotivamente alle situazioni, ed è difficile, se
non addirittura arduo, stabilire alcune categorie concettuali definitive,
senza far riferimento costante a fattori discriminanti, quali:
- lo stadio di vita e l'età del malato;
- l'Identità e l'Immagine personale;
- lo stile di risposta allo stress;
- lo stile emozionale;
- le esperienze precedenti..ecc.
di fatto, se entrassimo nel merito dell'analisi di tutti questi
fattori, andremmo ben oltre gli obiettivi di questo capitolo. Ciò
che mi preme illustrare, è la serie di processi psicologici
attraverso cui il malato comincia a concepire, realizzare (nel senso
di prendere coscienza) e integrare, l'esperienza della malattia
e la percezione della morte.
A questo scopo utilizzerò le conoscenze sul modello di risposta
allo stress, che rende ragione non solo della significatività
dell'evento malattia, ma anche della rilevanza che questo avrà
per la soggettività della persona malata.
Le più recenti acquisizioni della ricerca sullo stress sostengono
che il vissuto soggettivo e il tipo di adattamento ad una particolare
situazione sono determinati:
1) dal significato personale attribuito alle circostanze che l'individuo
vive;
2) dal giudizio e dalla stima delle risorse personali e delle capacità
di fronteggiare queste circostanze.
Si ha stress psicologico, nel caso in cui una esperienza, valutata
come minacciosa per il dominio personale, supera notevolmente la capacità
personale di fronteggiarla.
Per esempio: un ragazzino affrontato da un prepotente, più
grande di lui, può prevedere facilmente di essere malmenato
(in questo caso attribuisce alla situazione il significato di pericolo
e minaccia) e che le sue forze non potranno consentirgli di difendersi
adeguatamente (attua una valutazione negativa della propria capacità
di difesa). Il senso di vulnerabilità e di insicurezza personale,
che ne deriva, rappresentano una misura dello stress psicologico.
Le risposte emozionali come l'ansia, l'agitazione, la collera e i
comportamenti di fuga o aggressione, costituiscono le strategie per
rispondere concretamente alla situazione.
I succitati processi di valutazione sono caratterizzati da considerazioni
inconsapevoli, in genere molto rapide ed automatiche, che avvengono
fuori della coscienza.
Questi processi sono fortemente interdipendenti e non separabili,
ma è utile richiamare l'attenzione sulle caratteristiche specifiche
di ognuno.
a) Il significato della malattia.
La valutazione della malattia, dalla scoperta dei
sintomi all'avvicinarsi della morte, si costruisce su vari fattori
tra cui:
- esperienze precedenti;
- convinzioni personali sulla malattia;
- modalità di insorgenza dei sintomi;
- gravità e limitazioni implicate.
- In termini generali, la malattia determina sempre una condizione
di profonda crisi sia biologica - per le sofferenze, i disagi, le
limitazioni che comporta - sia esistenziale, per le ripercussioni
che ha sullo stile di vita, sull'identità, sulla progettualità
dell'individuo. La malattia
"disorienta la propria identità: interrompe e disorganizza l'abituale ritmo di vita, mette in crisi i rapporti con il proprio corpo e con il mondo in cui l'individuo vive, è una situazione che modifica e fa perdere i ruoli professionali e familiari".
Impone la costruzione di nuovi modelli di comportamento
e l'elaborazione di una nuova immagine personale.
In particolare la malattia grave è vissuta come imponente minaccia
alla integrità biopsichica ed è associata, dal suo primo
manifestarsi, ad un inquietante messaggio di morte.
La percezione della morte, anche se con fenomeni clinici diversi,
colora ogni momento dell'iter evolutivo della malattia: la diagnosi,
la terapia, l'eventuale intervento chirurgico, la fase terminale.
Più di ogni altra malattia a prognosi infausta, la diagnosi
di un tumore maligno elicita sentimenti di angoscia, dolore, isolamento
e morte. È associata a fantasia e immagini di sofferenza prolungata,
di dolore totale ed incoercibile ed è comunque vissuta come
una sentenza di morte.
Queste convinzioni, accanto ad altri fattori culturali e sociali,
condizionano l'atteggiamento del paziente nei confronti delle terapie
e dei trattamenti proposti: favorendo ora la rassegnazione, la rinuncia,
la sfida o il vissuto della morte già durante la vita. Non
solo. Le recenti indagini di psicoimmunologia sostengono che le convinzioni
cognitive e le emozioni giocano un ruolo centrale nell'eziologia e
nel decorso della malattia oncologica: amplificano e intensificano
la sintomatologia fisica e influenzano la durata della vita stessa.
Un importante studio, sulla lunghezza media della vita di pazienti
con patologia oncologica incurabile, ha riscontrato che la lunghezza
della vita era correlata significativamente alla capacità del
malato di mantenere relazioni interpersonali attive e reciproche.
Obiettivi
1. Far emergere le convinzioni e i vissuti che accompagnano l'evoluzione
della malattia.
2. Fornire informazioni più realistiche sulla curabilità
dei sintomi.
3. Attraverso il controllo della sintomatologia fisica, modificare
l'attitudine negativa verso la malattia.
4. Aiutare il malato ad orientare le aspettative su obiettivi che
puntino alla qualità di vita.
Criteri terapeutici
Il cancro mantiene ancora una connotazione fortemente
negativa ed è valutato, facilmente, su convinzioni irrazionali,
nonostante le attuali conoscenze tecnologiche e scientifiche e gli
opportuni interventi preventivi abbiano permesso di contenere l'incidenza
della mortalità e dominare il dolore e la sintomatologia fisica.
Senza entrare in merito alle problematiche relative alla comunicazione
tra operatori e paziente, mi preme sottolineare che è più
utile valutare il grado di consapevolezza, le idee e le opinioni che
il paziente si è costruito sulla sua malattia piuttosto che
interrogarsi sulle "verità" da comunicare.
Attraverso un atteggiamento di ascolto si rileveranno tutte le fantasie
o le verità intuite, le paure esagerate o le rassegnazioni
necessarie, cioè l'interpretazione soggettiva dell'esperienza
di malattia. Su queste informazioni è opportuno costruire il
proprio comportamento assistenziale.
"si può contare non sull'informare il paziente, ma sullo stare con il paziente, non sulla verità ma sul rapporto. È all'interno di questo rapporto che la parola e l'informazione trovano la loro strada e il loro vero significato".
L'atteggiamento più opportuno è quello
di complementarsi al paziente, mettersi in rapporto con lui, e affrontare
le problematiche che pone con gradualità, rispettando i suoi
tempi e le sue strategie, risparmiandogli inutili ansie con opportune
informazioni.
Un paziente, tormentato dalla paura di morire tra atroci dolori, può
essere tranquillizzato dalla constatazione che saranno impiegate tutte
le terapie opportune per placargli il dolore e consentirgli una adeguata
qualità di vita.
La "correzione" delle convinzioni irrazionali può
far emergere nuove motivazioni che facilitano l'adattamento alla malattia.
È utile insistere sul concetto di cronicità della malattia
per facilitare al paziente la costruzione di uno stile di vita che
includa le limitazioni che, progressivamente, la sua condizione gli
imporrà.
La qualità di vita del malato sarà migliore se gli si
offre l'opportunità di confrontarsi, poco alla volta,
con l'irreversibilità della sua malattia.
b) La gestione della malattia.
Per fronteggiare le richieste imposte dagli eventi
stressanti vengono utilizzate diverse attività di gestione.
La valutazione delle scelte e delle possibilità di gestione
è influenzata essenzialmente da:
- precedenti esperienze in situazioni analoghe;
- convinzioni generalizzate su di sé e sull'ambiente;
- disponibilità di risorse personali (sicurezza, fiducia, autostima);
- risorse ambientali (sostegno sociale, rapporti affettivi e significativi).
- Prima di entrare in merito all'argomento specifico, vorrei
chiarire una serie di aspetti psicologici essenziali.
Convinzioni su di sé: sono degli insieme di
atteggiamenti nei confronti di se stessi, costituiti da generalizzazioni
derivate dalle interazioni avute con l'ambiente familiare e
sociale. Dipendono largamente dalle esperienze infantili, dai giudizi
degli altri sulla propria persona, dalle identificazioni con figure
significative. Con l'età adulta, i concetti di sé
si strutturano in modo stabile, in uno schema cognitivo che influenzerà
la valutazione di giudizi successivi.
Un esempio: genitori ansiosi ed iperprotettivi, tenderanno a limitare
la vita extrafamiliare del figlio, descrivendogli l'ambiente
sociale come pericoloso e contemporaneamente proponendogli un'immagine
personale di fragilità. Il figlio accetterà la protezione
eccessiva, giustificandola attraverso la sua intrinseca fragilità.
Su questo dato costruirà la sua identità personale.
Con il progredire dell'età, tenderà a mettere
in risalto tutti i dati e le esperienze che gli confermano l'idea
della sua debolezza e dell'ambiente minaccioso. Queste conoscenze,
con l'età adulta, diventeranno stabili e automatiche,
influenzando i suoi comportamenti e le sue emozioni: quando sarà
lontano da casa si sentirà stranamente strano ed ansioso; così
progressivamente, tenderà ad evitare queste situazioni negative,
mantenendo una rassicurante vicinanza alle figure che vede come protettive.
In conclusione, i concetti di sé, come identità personale,
rappresentano quindi una specie di filtro, una lente attraverso cui
si legge la sua realtà interna ed esterna.
I nuclei dei concetti di sé, positivi e negativi, determinano
la direzione dell'autostima e della fiducia personale.
Fiducia di sé: si riferisce ad una costellazione di atteggiamenti
implicanti una valutazione personale delle proprie capacità
strumentali e delle possibilità di poterle esercitare. Il senso
di sicurezza e di padronanza dipendono dalla convinzione di riuscire
a fronteggiare adeguatamente qualsiasi situazione.
La prospettiva della malattia e della morte, mette in crisi i metodi
abituali di reazione e sconvolge i comportamenti usuali. In questo
senso rappresenta una minaccia al senso globale dell'identità
e dell'immagine personale.
L'idea della irreversibilità della malattia e la consapevolezza
dell'approssimarsi della morte, rappresentano già un
pericolo da cui è necessario difendersi. Ed a questo proposito
vengono utilizzate tante strategie mentali per non sconvolgere l'individuo.
Un esempio significativo di come il senso di insicurezza influenzi
i sentimenti ed i comportamenti, è proposto da R. Burton:
"poniamo il caso che uno si trovi a camminare sopra un asse; se questo giace al suolo, riesce a farlo con sicurezza, ma se lo stesso asse è sospeso sopra delle acque profonde, al posto di un ponte, egli si sentirà barcollare impetuosamente e, ciò non è null'altro che la sua immaginazione, l'idea di cadere si imprimerà su di lui, e ad essa le sue membra e le sue facoltà ubbidiranno".
Per comprendere le modalità che il malato
usa per evitare la consapevolezza piena della sua condizione, è
utile soffermarsi brevemente sui processi utilizzati per elaborare
le informazioni percettive.
Innanzi tutto va chiarito che nel corso della vita gran parte dei
dati percettivi sono esclusi da ulteriori elaborazioni consapevoli,
per evitare un sovraccarico, per l'individuo, e una costante
distrazione della sua attenzione.
La consapevolezza, inoltre, va intesa come un continuum, piuttosto
che come una dicotomia che separa l'esperienza conscia da quella
inconscia, ed è caratterizzata da vari livelli di elaborazione.
Nel caso di valutazioni minacciose per l'equilibrio personale,
come è la paura della morte, l'individuo potrà
gestire, in modo automatico e non consapevole, l'informazione
graduando la consapevolezza della sua condizione attraverso una esclusione,
parziale o completa, dei dati incriminati.
- Alcuni individui, che hanno costruito l'identità personale
su convinzioni di particolare vulnerabilità e incapacità
a gestire forti emozioni, tenderanno ad escludere completamente tutti
quei dati percettivi che evocano l'idea della malattia grave
(sarà negato il significato degli esami strumentali o delle
terapie specifiche dello stesso reparto di degenza..). questo spiega
perché anche persone con appropriate conoscenze scientifiche,
possono, nel caso in cui la malattia li riguarda direttamente, ãnon
capire" completamente l'esperienza che stanno vivendo.
- R. Buckman riferisce, a questo proposito, un episodio particolarmente
significativo:
Un famoso medico fu ricoverato nel suo stesso ospedale per un intervento esplorativo. Si scoprì che aveva un tumore incurabile al pancreas allo stadio avanzato. La diagnosi gli fu comunicata dal chirurgo alcuni giorni dopo l'operazione, ma ogni giorno si rivolgeva al chirurgo con la stessa domanda:" cosa hai scoperto con l'intervento?" il chirurgo che conosceva bene il paziente come collega ed amico rispondeva: ãho trovato un tumore al pancreas te l'ho detto ieri". Ci vollero circa due settimane prima che il paziente scoprisse che ricordava la diagnosi".
- In altri individui, si può osservare l'esclusione
della paura dai processi di elaborazione superiore, riscontrando però
l'influenza delle risposte vegetative e/o emozionali.
Un paziente può, per esempio, sentirsi completamente calmo
e parlare della sua malattia con un adeguato controllo, e contemporaneamente
lamentare un aumento della sua sintomatologia fisica.
Un altro può sentirsi inquieto ed ansioso, senza riuscire però
ad individuare le ragioni della sua paura.
- In altre situazioni, la paura può raggiungere
uno stadio più complesso di elaborazione, ma per controllare
l'impatto emozionale vengono costruite strategie comportamentali
del tutto particolari. In questo caso, per esempio, il paziente può
focalizzare la sua paura su circostanze poco significative, o credere
di essere preoccupato per problemi dei suoi familiari.
Alcuni possono limitare la loro comunicazione a inezie e banalità,
e cercare di distrarsi per non pensare e non riflettere alla realtà
della propria condizione.
In generale l'esclusione selettiva è un processo adattivo
che permette di attutire e mitigare l'impatto violento di informazioni
minacciose. Ci sono ampie variazioni nella durata e nel grado di questo
evitamento, però se l'esclusione è attiva per
lungo tempo può rivelarsi disadattiva e funzionale.
Un esempio può essere rappresentato dal ritardo diagnostico,
in cui la scoperta dei sintomi non è seguita dalla conseguente
consultazione. In questo caso, l'esclusione dalla coscienza
del significato angosciante attribuito al sintomo, non permette di
sollecitare le risposte emozionali specifiche, come l'ansia,
né predisporre comportamenti relativi alla presa in carico
del problema.
Obiettivi
1. Avviare un confronto costante, all'interno dell'equipe,
su queste problematiche.
2. Rilevare le modalità usate dal malato per graduare l'impatto
della malattia.
3. Valutare gli atteggiamenti nei confronti della terapia e dei programmi
di cura, come espressione del disagio di rapportarsi alla malattia.
4. Offrire adeguate opportunità per passare gradualmente da
un atteggiamento di evitamento nei confronti della coscienza dello
stato di malattia, ad una graduale e progressiva consapevolezza.
Criteri terapeutici
Le considerazioni sulle strategie difensive vanno estese anche ai
familiari ed agli operatori assistenziali. Come vedremo meglio in
seguito, di fronte all'individuo che fa i conti concretamente
con l'angoscia della sua morte, è inevitabile per chiunque
una pericolosa identificazione che rimanda alla propria morte.
La consapevolezza della complessità della modalità difensive
deve mettere in guardia da interpretazioni semplicistiche dell'altrui
o dei propri comportamenti.
L'organizzazione sotto la direzione di uno psicologo, di gruppi
di discussione tra gli operatori, può fare da argine a grossolani
errori terapeutici ed a pericolose identificazioni.
Utilizzare l'équipe come metodologia di lavoro favorisce
l'analisi corretta delle problematiche specifiche del paziente,
delle dinamiche personali di ogni operatore e dei conflitti interni
dello staff assistenziale.
Solitamente è opportuno, dopo le necessarie discussioni di
équipe, mediare l'intervento psicologico sul paziente,
utilizzando la trama dei rapporti già costituiti, a partire
dalle competenze professionali (l'infermiere o il medico).
In particolare, il contributo dell'infermiere è di farsi
portavoce dei disagi del paziente e, dopo avere messo a punto in équipe
le strategie assistenziali più efficaci, mediare l'intervento
sul paziente.
Ciò che è importante è avere la possibilità,
dopo opportuna formazione, di cogliere certi elementi significativi.
Un ascolto attento ed una osservazione sensibile può far mettere
a fuoco tutti quegli elementi che indicano un disagio particolare
nell'adattarsi alla malattia.
In generale è importante interrogarsi su come si può
facilitare al paziente la presa di coscienza dell'esperienza
che lo aspetta. I dati clinici dimostrano che si offre ad una persona
l'opportunità reale di confrontarsi con la propria condizione,
e si incoraggia l'espressione dei sentimenti, il paziente tenderà
progressivamente ad una piena realizzazione della situazione, senza
soffrire angosce e disperazioni opprimenti.
c) La reazione di paura.
Tutto l'iter diagnostico può essere
accompagnato da previsioni e condizioni che qualcosa di particolarmente
grave possa accadere.
La paura, più che una reazione emotiva, rappresenta la presa
di coscienza del pericolo, la previsione ed il riconoscimento dell'approssimarsi
della morte.
Tipico della paura è l'orientamento verso il futuro,
nel senso che le conseguenze, rappresentate a livello mentale, non
sono ancora accadute, ma hanno grandi probabilità di verificarsi.
Ne deriva che la reazione di paura è intrinsecamente permeata
di speranza, cioè implica una attesa fiduciosa che le previsioni
drammatiche possano anche non realizzarsi. È proprio questo
ingrediente che può essere utilizzato, non tanto per costruire
fantasie irrealistiche, quanto per motivare il paziente a polarizzarsi
su nuove motivazioni e accettare programmi e terapie penose e stressanti.
Si possono avere:
- paure legate alle conseguenze della malattia: debilitazione, sofferenza,
dolore, perdita di autonomia, solitudine, isolamento, ignoto, morte·
- paure per le persone che si lasciano e i progetti che si abbandonano:
separazioni, perdite, responsabilità·
M. Parker ha riscontrato che le paure più frequenti sono:
- paura di separarsi dalle persone amate (38%): è la prima
a manifestarsi allorché viene richiesto il ricovero in ospedale.
Se il paziente ha il coraggio di confrontarsi con la morte, la paura
si trasforma in dolore, che può essere mitigato se si mostra
agli altri;
- paura di dipendere dagli altri, di perdere il controllo delle facoltà
fisiche, di dover essere accuditi (23%): si osserva frequentemente
in persone autonome e sicure che nel corso della loro vita hanno preferito
occuparsi di altri piuttosto che essere accuditi. È importante
rispettare la loro indipendenza, evitando atteggiamenti troppo protettivi;
- paura di lasciare il coniuge, o bambini che dipendono da loro (20%):
per madri, in particolare, è difficile credere che i propri
figli potrebbero sopravvivere senza di loro. È opportuno per
la famiglia affrontare immediatamente questo timore e tentare di trovare
delle soluzioni che ãtranquillizzano", piuttosto che rimandare
la decisione;
- paura di fallire nel portare a termine un programma o un dovere
importante (10%): per alcuni è difficile accettare che le proprie
speranze possano morire. In questi casi la rabbia è l'emozione
più frequente;
- paura del dolore o di eventuali mutilazioni (7%).
ã il corso delle reazioni emozionali va da episodi di ansia ad episodi di depressione, seguiti da periodi di relativa tranquillità e adattamento, fino alle successive svolte critiche · è difficile, per il paziente e per il medico individuare in anticipo i periodi critici e sapere con certezza il tempo che rimane da vivere, per il carattere imprevedibile e irregolare della malattia stessa".
È inutile riconoscere i contenuti emozionali
specifici per risalire e come il paziente vive la propria malattia,
allo scopo di costruire strategie assistenziali.
Ansia: è uno stato d'animo di tensione e agitazione;
definisce un continuum di sensazioni che vanno dalla tensione al panico,
allo shock..
Entro certi livelli di intensità, l'ansia ha una funzione
adattiva, cioè, attrae l'attenzione dell'individuo
e la distoglie da altri interessi e preoccupazioni. Accelera le reazioni
e accresce il senso di emergenza, tanto da permettere alla persona
di mobilizzarsi per la ricerca di soluzioni.
Più che un processo emozionale patologico, l'ansia rappresenta
l'espressione indispensabile, potremmo dire fisiologica, del
senso di minaccia rappresentato a livello cognitivo dalla paura.
Può essere paragonata alla febbre o all'esperienza del
dolore, che sono soltanto espressioni di un processo infettivo sottostante.
Pertanto, con opportune terapie farmacologiche, si può ridurre
l'emozione dell'ansia, ma non si può eliminare
la paura che il malato prova per la sua condizione.
L'ansia può manifestarsi con sintomi di varia natura:
- sintomi di natura fisiologica: per es. vertigini, sudorazione, tremori,
tachicardia, dolori, difficoltà respiratorie, agitazione, tensione,
debolezza·
- sintomi sensoriali-percettivi: senso di irrealtà, ipervigilanza,
stordimento·
- difficoltà di pensiero: confusione, amnesie per informazioni
importanti, distraibilità, difficoltà di concentrazione,
difficoltà nel ragionamento, blocco mentale·
Condizioni di incertezza e circostanze indefinite agiscono amplificando
l'intensità emozionale, perché la mancanza di
elementi su cui costruire previsioni ed aspettative aumenta il senso
di incapacità personale e di insicurezza e il conseguente vissuto
di pericolo.
Per questo motivo è importante spiegare al malato ed ai suoi
familiari, con la massima chiarezza, lo scopo, gli effetti dei trattamenti
e degli stessi accertamenti diagnostici. L'informare sulle procedure,
i tempi necessari, le modalità· risparmia al malato
ansie inutili e favorisce reazioni più positive ed atteggiamenti
collaborativi.
È invece decisamente inopportuno riferire al paziente dubbi
o incertezze terapeutiche, che potrebbero sortire l'effetto
di diminuire la fiducia e l'affidabilità dello staff
curante.
Panico: è caratterizzato da stati di ansia acuta e intensa,
accompagnati da un senso di catastrofe incombente. Se l'angoscia
è tale da invadere completamente il senso globale dell'identità,
possono essere attivate risposte ãprimarie", che fronteggiano
in modo immediato l'angoscia (blocco mentale, svenimento, senso
di impotenza).
Shock:un aspetto disabilitante specifico è la sensazione di
essere incapaci di pensare ed agire. Si è travolti da un senso
di impotenza e paralisi, che distoglie l'attenzione dai contenuti
mentali di paura, e spinge l'individuo a ricercare aiuto, la
vicinanza e il sostegno di figure rassicuranti.
Questo comportamento, frequentemente definito ãregressione",
è tipico delle condizioni di malattia.
La richiesta di aiuto è comprensibile nella condizione di insicurezza
personale, associata alla malattia, come strategia di gestione per
tamponare i sentimenti di inadeguatezza e vulnerabilità personale.
In conclusione, il primo impatto con la malattia può essere
caratterizzato da tensione ed apprensione, alterati ad una innaturale
calma apparente che può essere infranta da violenti attacchi
di panico. Questa condizione può durare qualche settimana o
perdurare fino alla morte, se c'è una grande difficoltà
a concepire la malattia e la morte stessa.
Via via che aumenta la consapevolezza, anche se in modo intermittente,
si manifesta una maggiore irrequietezza motoria e il paziente può
apparire molto agitato.
Si determina una condizione di tacita ambivalenza: da una parte il
malato non può credere che ciò che sta succedendo sia
vero e reale, dall'altra parte nutre la speranza illusoria che
tutto torni come prima. Una caratteristica emozionale specifica di
questa rappresentazione è la collera.
Collera: in alcuni ha l'aspetto di una irritabilità e
amarezza generale.
In molti sembra orientata proprio verso i ãsoccorritori":
i medici, gli infermieri, i parenti· ritenuti responsabili
delle sofferenze patite.
Paradossalmente, la presenza di questa emozione indica che il processo
di adattamento alla malattia è ancora parziale, e la collera
può essere suscitata perché l'attenzione è
spostata sulle persone, ritenute responsabili, piuttosto che sui contenuti
della propria paura. Collera e risentimento rappresentano una componente
comprensibile dello sforzo, anche se irrealistico, di negarsi la realtà
della propria tragedia e di ripristinare le condizioni preesistenti.
Si può ipotizzare che la collera sia più frequente da
parte di persone la cui immagine personale si è costruita su
definizioni di autonomia, indipendenza, intraprendenza e forza.
In questo caso la collera rappresenta anche una modalità per
negare l'immagine di passività e dipendenza che la malattia
evoca.
L'intensità della collera è proporzionale a quanto
la malattia venga vissuta come ingiusta ed arbitraria: nel caso di
pazienti giovani, la malattia si frappone alla realizzazione di sé
e dei progetti per cui si è speso gran parte dei propri sogni.
La collera è così una reazione comprensibile del disperato
tentativo di ãcombattere" l'inevitabilità
della morte.
Obiettivi
1. Incoraggiare il paziente a verbalizzare le sue
fantasie ed a manifestare liberamente le emozioni.
2. Prestare attenzione ai termini che il malato usa per descrivere
i sentimenti, e il grado di sopportazione che esprime.
3. Accettare le modalità espressive del malato.
4. Costruire atteggiamenti di accettazione nei confronti di modalità
aggressive.
5. Avviare un confronto positivo quando il paziente è pronto
a prendere posizioni più adeguate.
6. Incoraggiare la presenza ed il conforto da parte dei familiari.
Criteri terapeutici
È facile comprendere l'angoscia e l'ansia
di una persona affetta da una malattia a prognosi infausta, tanto
da scoraggiare inconsapevolmente, ulteriori riferimenti alla sua condizione,
o dare per scontate le ragioni personali del morente.
È opportuno permettere al paziente di parlare liberamente:
si riferisce di sentirsi terrorizzato all'idea di morire, invece
che rispondere frettolosamente ãsì, capisco" e
cambiare discorso, ci si può sedere accanto a lui e sollecitarlo
a parlare, o rispondere con un comportamento non verbale di attenzione
ed ascolto.
Il comportamento non verbale può essere più eloquente
di tante parole.
È impossibile trovare delle formule giuste in assoluto, indipendentemente
da ciò che vive e sente il paziente.
Una formazione psicologica adeguata, una capacità di ascolto
empatico, la conoscenza di se stessi ed il credere nelle proprie capacità,
sono tutti ingredienti essenziali per favorire l'intuizione
del momento in cui è più opportuna una pausa di silenzio,
un sorriso, prendere la mano·incoraggiare il malato, distrarlo.
È importante stabilire che le emozioni, che accompagnano l'evoluzione
della malattia grave, sono soltanto un'espressione del faticoso
tentativo di elaborare l'idea della morte.
È comprensibile la collera di cui non ha più il controllo
sulla sua vita. Ogni tentativo di ridimensionarla con argomentazioni
facili e razionali tende a fallire.
Alcuni pazienti sollecitano costantemente atteggiamenti di vicinanza
e cura che mascherano una angoscia incontrollabile.
Si può comunicare comprensione dicendo semplicemente: ãsento
che è molto difficile sopportare questa situazione", favorendo
al morente la possibilità di esplicitare le proprie paure.
Altri malati si mostrano particolarmente riservati e chiusi. Non bisogna
farsi intimidire da un atteggiamento che forse esprime il senso di
umiliazione per aver perso il controllo delle proprie funzioni, o
il disagio di sentirsi dipendenti.
Un atteggiamento dolce e discreto può favorire una maggiore
familiarità e la disponibilità ad un dialogo più
aperto.
Molte paure possono essere sollevate dall'incoraggiare la famiglia
a stare attorno al paziente senza limiti particolari di orari.
d) La dimensione della perdita.
Quando la malattia incomincia ad intaccare più
pesantemente la qualità di vita, la speranza svanisce e l'incredulità
può essere interrotta da eccessi di acuta sofferenza e disperazione.
Le precedenti paure si trasformano nell'amara e dolorosa consapevolezza
della ãperdita": la perdita inevitabile delle persone
amate, dei beni più preziosi che hanno guidato la vita·
Il futuro appare vuoto ed inesistente; ogni sforzo diviene inutile
e troppo faticoso in mancanza di mete ed obiettivi da raggiungere.
Il paziente si rammarica per avere perso ogni fonte di soddisfazione:
la salute, l'autonomia, il lavoro, le responsabilità
familiari, gli affetti·
Progressivamente può perdere ogni motivazione e ogni attaccamento
all'esistenza: la malattia e la sua irreversibilità sembrano
vanificare ogni tentativo di prolungare la vita stessa ed il paziente
può essere sopraffatto dalla più cupa disperazione.
In questa condizione, il morente può manifestare il desiderio
di interrompere ogni trattamento e può considerare l'idea
del suicidio.
Il desiderio di morire può essere espressione del fatto che
la malattia ha reso la vita invivibile, tanto che la morte appare
una desiderabile liberazione; oltre che esprimere il desiderio di
essere aiutato a vivere l'esperienza del morire.
Paradossalmente, il desiderio di morte può facilitare e riaprire
la comunicazione con chi è deputato ad assistere.
Purtroppo in ospedale al morente si richiede che
"viva correttamente, cioè mantenga la compostezza dei nervi, sia coraggioso, gentile con tutti, si mostri fiducioso, si lasci curare e non provochi stress eccessivi né alla famiglia né allo staff dei curanti, sopporti gli altri pazienti, insomma si richiede al paziente che ãnel morire mostri uno stile accettabile di vita".
Il desiderio di morire, in genere, non è verbalizzato
chiaramente, ma si manifesta in modo indiretto attraverso il lasciarsi
andare, il silenzio ostinato, la resistenza passiva alle terapie.
Senza un rapporto significativo con il morente non è possibile
cogliere il disperato bisogno di aiuto che si annida tra le maglie
del silenzio.
Depressione: il disturbo principale può assumere varie forme:
- uno stato emotivo spiacevole, che va dalla tristezza, alla disperazione,
all'apatia;
- un mutato atteggiamento nei confronti della vita. L'imminenza
della morte può portare a sviluppare un senso di fallimento
personale associato ai sensi di colpa, di punizione o di autoaccusa;
- sintomi somatici tipici: dolori diffusi o localizzati, anoressia,
disturbi del sonno·possono interferire ed amplificare la sintomatologia
fisica associata alla malattia;
- sentimenti di profonda solitudine.
- In questa fase diventano urgenti gli interrogativi sul senso della
vita, della sofferenza, della morte; è particolarmente importante
offrire un sostegno spirituale.
"il modo in cui si muore dipende in non poca misura anche dalle possibilità che un individuo ha avuto di porsi, e raggiungere, delle mete durante la vita. Dipende da quanto una persona, in punto di morte, sente d'avere trascorso una vita piena e serena o vuota e senza senso· l'attuazione del senso dell'individuo· è strettamente correlata al significato che egli è riuscito a raggiungere per gli altri, durante la vita, mediante la sua personalità, il suo comportamento, il suo lavoro".
A maggiore ragione è possibile far recuperare
il senso della propria vita e del proprio morire, dimostrando al morente,
attraverso la cura e l'interesse per il suo benessere e la sua
persona, che non ha perso importanza per noi.
Una adeguata vicinanza in questa fase può favorire al malato
la possibilità di ãpacificarsi" con i suoi ricordi
e la memoria della sua vita, distaccandosi più facilmente dall'esistenza.
"c'è un periodo in cui il malato annulla tutti gli apporti esterni, comincia a distaccarsi, diventa molto introspettivo, cerca di ricordare eventi e persone che sono stati importanti per lui, e rielabora ancora una volta la propria vita passata, forse in un tentativo di riassumerne il valore e cercarne il significato".
Progressivamente il malato può arrivare ad
adattarsi all'imminenza della morte: ã non è una
fase felice, ma un vuoto dei sentimenti, il riposo finale prima del
lungo viaggio".
Obiettivi
1. Mostrare disponibilità a confrontarsi con
temi e fantasie depressive.
2. Facilitare l'espressione emozionale del dolore e della disperazione.
3. Sostenere la famiglia che si confronta con la prossimità
della perdita del congiunto.
4. Riconoscere l'adeguatezza delle emozioni e delle convinzioni
evocate dalla morte.
5. Evitare di parlare delle proprie angosce o di quelle degli altri,
per consolare il malato.
6. Favorire l'assistenza diretta dei familiari durante le ultime
ore di vita.
Criteri terapeutici
Questa fase mette in crisi familiari ed operatori, chiunque non abbia avviato un confronto con i sentimenti che la morte evoca, con i limiti del proprio ruolo, con il senso di impotenza di assistere una persona disperata o indifferente.
ãvisitare i malati vuol dire che noi ce ne andremo, a volte, senza aver visto un ritorno di serenità: accetteremo la nostra temporanea sconfitta e non obbligheremo il malato alla commedia, per lasciarci credere che sta meglio·".
Permettere al malato di comunicare anche le sue angosce
più disperate significa, indirettamente, mostrargli che il
dolore, la sofferenza, il senso di solitudine, possono essere condivisi
e sopportati.
Il passaggio dalla negazione alla coscienza della morte inevitabilmente
implica l'atteggiamento introspettivo e i contenuti della depressione.
Le speranze e gli incoraggiamenti irrealistici, più che un
aiuto al morente, rappresentano un modo per difendere se stessi dal
confronto con la sofferenza.
II- LA FAMIGLIA
La malattia grave e la morte di una persona cara
rappresentano le esperienze più drammatiche e stressanti nella
vita di una persona.
Il familiare si trova nella difficile condizione di gestire la propria
sofferenza, ridistribuire ruoli e funzioni familiari, nello stesso
tempo sostenere il proprio congiunto, garantirgli un'assistenza
continua e cominciare a prepararsi al lutto.
Le strategie utilizzate dai familiari per fronteggiare queste situazioni,
sono le stesse, in qualche modo, a cui si è fatto riferimento
a proposito del morente, anche se possono esprimersi in comportamenti
e modalità del tutto specifiche. Un esempio può essere
l'esagerato attivismo che, effetto dei sentimenti di angoscia
e ansia provati dal parente, può manifestarsi in vari modi:
- nel darsi da fare, in modo esasperante, per distrarre il morente
e prendersi cura di lui;
- nella ricerca frenetica di informazioni mediche per scoprire qualche
cavillo o inezia che metta in discussione la prognosi infausta e rinforzi
la speranza che ãil caso" del proprio congiunto rappresenti
un'eccezione.
L'iperattività nei confronti del morente si confronta,
in genere, con la tendenza a trascurare tutti gli altri interessi:
il lavoro, i figli, la casa· con le drammatiche conseguenze
che questo comporta a livello economico e relazionale.
L'iperattività può essere una conseguenza del
tentativo, da parte del parente, di evitare il confronto diretto con
i sentimenti e i pensieri angoscianti generati dalla paura di perdere
la persona amata.
Nel tentativo di difendere il morente dalla dolorosa consapevolezza
della sua condizione, all'interno della famiglia possono svilupparsi
forme distorte di comunicazione, che hanno l'effetto di ampliare
ed intensificare l'angoscia, la sofferenza e il senso di solitudine,
sia nel morente che negli stessi familiari. Un esempio, abbastanza
tipico, di interazione contraddittoria e confusa è stata definita
ãcospirazione del silenzio" nel senso che, anziché
parlarsi in modo leale, in un clima di comprensione e vicinanza, il
familiare evita ogni riferimento all'imminenza della morte ed
alla realtà della malattia.
Questa situazione apre un baratro si sfiducia e di estraneità
nel momento in cui sarebbe più opportuno comunicare in modo
aperto e chiaro i sentimenti reciproci, tanto da accomiatarsi amorevolmente.
La maggior parte degli autori concorda nel ritenere che il morente
ed il familiare si confrontano con le stesse paure e gli stessi dolori,
influenzandosi reciprocamente.
È proprio questa influenza reciproca che obbliga gli operatori
a promuovere un ulteriore salto a livello concettuale: non basta recuperare
il malato come persona ãintera", ma è necessario
estendere il focus dell'assistenza a tutto il sistema familiare
inteso come unità inscindibile.
ãla famiglia, incluso il paziente, rappresenta l'unità essenziale di cura; il fatto che sia il paziente a richiedere il nostro aiuto non deve autorizzarci ad ignorare il resto della unità sociale che è stata invasa dal cancro·è un obbligo, per noi, cercare di aiutare il familiare ed il morente a fare l'uso migliore del tempo che rimane· il periodo di cure terminali può essere un periodo di crescita e preparazione reciproca oppure di fallimento e distruzione".
Il familiare che assiste un malato grave, ed in seguito
affronta il lutto conseguente, vive una condizione di profondo stress
psicofisico che aggrava fortemente lo stato generale di salute, aumentando
la vulnerabilità a contrarre varie malattie e l'incidenza
della mortalità.
M. Parker, che ha condotto gli studi più sistematici sul lutto,
ha individuato una serie di fattori " rischio" che permettono
di individuare quei parenti più vulnerabili a sviluppare un
lutto patologico. Tra questi, quelli che più pregiudicano la
risoluzione del lutto, sono:
- la condizione di dipendenza economica e sociale del morente;
- la condizione di dipendenza psicologica (come può essere
la condizione di chi non ha interessi propri al di fuori della famiglia);
- la presenza di figli piccoli da accudire;
- l'assenza di sostegni sociali o l'appartenenza a famiglie
che scoraggiano apertamente l'espressione delle emozioni e del
dolore;
- la presenza di forti sentimenti di colpa e di autoaccusa;
- la presenza di sentimenti di rabbia ed ostilità nei confronti
del morente, sia durante la malattia che dopo la morte.
Tutte queste informazioni possono essere raccolte al momento del ricovero
del paziente in ospedale. Una volta individuato il familiare più
vulnerabile, sarà opportuno offrire il sostegno necessario
affinché, nel corso della malattia, il parente possa prendere
coscienza dell'inevitabilità della morte e ãprepararsi"
al lutto.
Un atteggiamento consapevole permette di vivere i giorni che precedono
la morte come un tempo prezioso e positivo, pieno di significato.
a) Il lutto
Con il termine lutto si indica una vasta gamma di
processi psicologici avviati dalla perdita di una persona cara.
Dal punto di vista psicologico, la perdita di una persona amata è
un'esperienza fortemente traumatica in quanto può deviare
e alterare inevitabilmente lo sviluppo affettivo di un individuo.
Appare pertanto evidente l'importanza di continuare ad assistere
la famiglia anche dopo la morte del malato.
b) Il lutto anticipatorio
Molti autori hanno osservato che l'elaborazione
della perdita può cominciare già al momento della diagnosi
e prendere una forma quasi definitiva, tanto da subire pochi cambiamenti
in seguito, sin dalle primissime settimane.
La comunicazione della diagnosi può determinare nel familiare
le stesse reazioni cognitive ed emozionali descritte a proposito del
morente.
Il familiare può lamentare sensazioni di stordimento e di impotenza,
associate ad un senso di irrealtà.
Alcuni si comportano in modo automatico, come se niente fosse accaduto,
anche se descrivono sensazioni di tensione e di apprensione. Altri
si sentono pervasi da violenti attacchi di panico e di rabbia rivolta
soprattutto contro il medico che ha formulato la diagnosi. Altri ancora
sembrano completamente distaccati, come se ogni pensiero fosse bloccato.
Dopo qualche ora o qualche giorno, in genere, l'atteggiamento
di rifiuto può evolvere verso quello di incredulità,
pur mantenendo la tendenza, più o meno consapevole, a negare
la diagnosi o la prognosi.
Come è stato sottolineato per le strategie difensive utilizzate
dal morente, l'esclusione parziale delle informazioni sulla
realtà della malattia riesce a bloccare l'effetto del
dolore acuto, risultando di grande aiuto. Se invece, l'esclusione
è totale, come purtroppo accade nella maggior parte dei casi,
l'accettazione della realtà sarà compromessa,
tanto da spingere il familiare a contrapporsi ai programmi terapeutici
proposti e considerare l'idea di richiedere nuove consultazioni.
È questo, solitamente, l'atteggiamento tipico che favorisce
i ãviaggi della speranza". Il familiare, che nega la gravità
della malattia, tenderà a richiedere continue consultazioni
diagnostiche alla ricerca disperata di specialisti che possano confermare
le sue speranze. Un'altra tendenza, espressione dello stesso
atteggiamento, è quella di sottoporre il morente alle terapie
più svariate ed ai ãprogrammi più ãmiracolosi"
per scongiurare la morte.
I processi psicologici del familiare possono sovrapporsi a quelli
del malato, oppure interferire e bloccare l'evoluzione psicologica
del morente.
Con il progredire della malattia, le speranze illusorie e la collera
possono, comunque svanire e, gradualmente, la realtà della
morte può essere ammessa ed accettata.
Il lutto anticipatorio può avere un diverso andamento in base
al tipo di legame che si ha con il morente. È stato osservato
che la morte del coniuge è, solitamente associata ad una elaborazione
soltanto parziale della perdita, cosicché quando la morte sopraggiunge
viene, di fatto, vissuta come traumatica.
I processi di elaborazione, osservati nei genitori di bambini con
malattie a prognosi infauste, sembrano, in genere, spingere più
oltre.
In entrambi i casi, sembra che, se la malattia ha un decorso lungo
e penoso, il familiare può arrivare a desiderare la morte del
proprio congiunto. Il desiderio di morte, a differenza di quello che
può apparire, rappresenta l'estremo atto d'amore
per il morente, in quanto esprime l'esigenza di volergli risparmiare
una sofferenza, vissuta come inutile e senza scopo.
Obiettivi
1. Coinvolgere la famiglia nell'assistenza al morente.
2. Rispettare la gerarchia proposta dalla famiglia.
3. Individuare il familiare leader nell'assistenza per coinvolgerlo
e responsabilizzarlo sui programmi terapeutici.
4. Chiarire la gravità e l'irreversibilità della prognosi.
5. Chiarire le difficoltà assistenziali e comunicative, che
insorgono con la condizione di malattia.
6. Mostrare comprensione e solidarietà per le emozioni dei
familiari.
7. Riconoscere che tutte le persone coinvolte nella malattia utilizzeranno
le strategie difensive per graduare l'impatto della morte.
8. Sostenere il familiare nella scelta di comunicare in modo leale
e chiaro con il malato.
9. Rassicurare la famiglia che potrà contare sul sostegno dello
staff anche dopo la morte.
Criteri terapeutici
È opportuno considerare che il familiare,
come il malato, vive il disagio di gestire la disorganizzazione psicologica
e sociale imposta dalla malattia. Un atteggiamento di comprensione
e solidarietà può favorire un'alleanza terapeutica tra
familiare e staff curante e permette di utilizzare al meglio le risorse
affettive del parente.
Con la malattia si possono acuire difficoltà comunicative,
già presenti, che potrebbero compromettere definitivamente
il rapporto con il malato. Perciò si dovrà cercare di
favorire quella vicinanza affettiva indispensabile per migliorare
la relazione comunicativa: un rapporto intimo e affettuoso o distante
e ostile favorirà, dopo la morte, ricordi consolanti o rimpianti
angoscianti.
Un atteggiamento empatico e rispettoso permetterà all'operatore
di individuare anche i bisogni del parente, tanto da rispondere con
il tipo di aiuto di cui necessita.
La relazione di aiuto alla famiglia, che include un morente, rappresenta
una delle forme più complesse di terapia. La metodologia che
caratterizza la relazione di aiuto è così specificata
e aderente alla persona a cui è rivolta, che mal si presta
a descrizioni generali.
La comunicazione non verbale occupa un ruolo centrale: in un momento
di profonda disperazione, può essere più espressivo
ãprendere la mano", oppure ãmettere un braccio
intorno alla spalla" per comunicare la nostra comprensione e
rassicurare sulla nostra vicinanza. Opportuni training possono abilitare
ad acuire la sensibilità per le emozioni dei familiari del
morente, tanto da favorire risposte e comportamenti più efficaci.
La famiglia che ha perpetuato l'occultamento della verità
avrà bisogno di essere sostenuta nella decisione di chiarire
la comunicazione con il morente. È importante, però,
cercare di capire le ragioni e le motivazioni che hanno spinto i familiari
a scegliere l'atteggiamento di negazione della realtà.
All'inizio della malattia può essere stato naturale reagire
con la negazione, ma nella fase terminale della malattia, continuare
a persistere rigidamente in questo comportamento, sarebbe un modo
per costringere il morente ad affrontare in solitudine la consapevolezza
della sua morte.
Comunicare in modo chiaro con il morente non implica il dire tutta
la verità, né mentire completamente, ma comunicare quelle
ãverità" che il malato può tollerare. Se
si è attenti e sensibili, si potrà intravedere quando
il paziente è disposto a sapere di più sulla sua condizione.
Questa consapevolezza non potrà sollevare il malato, ma permetterà
a lui e alla sua famiglia di vivere il tempo che rimane più
intensamente.
c) Gli stadi del lutto
L'osservazione delle reazioni alla perdita,
mostra un andamento caratteristico che è stato descritto da
molti autori, lungo fasi successive.
Sono state differenziate quattro fasi tipiche, dalla notizia della
morte alla consapevolezza piena della perdita subita. Le emozioni
e gli atteggiamenti più caratteristici sono stati così
evidenziati: stordimento, ricerca e struggimento, disorganizzazione
e disperazione, riorganizzazione.
Le fasi non sono distinte rigidamente, nel senso che la stessa persona
può presentare un'oscillazione in avanti o indietro.
Fase di stordimento: L'incapacità ad accettare la notizia della morte avvenuta e accompagnata da sensazioni di confusione e irrealtà. Si osserva un'altissima variabilità individuale nel corso del passare delle ore.
Fase di ricerca e struggimento: dopo qualche ora
o qualche giorno, si manifesta, anche se in modo intermittente, la
consapevolezza della perdita, che è accompagnata da sentimenti
di profonda tristezza, angoscia, pianto, agitazione, irrequietezza,
insonnia. In questa fase sono del tutto caratteristiche le sensazioni
della presenza reale del defunto e il pensiero fisso su di lui. Per
esempio: la vedova può avere la sensazione costante di sentire
ãil passo" del marito defunto, o addirittura udire la
sua voce, il suo modo di fischiettare o di parlare. Sono delle sensazioni
molto vivide e intense, tanto da far sussultare e verificare la presenza
stessa.
C'è l'impossibilità di credere che la morte
sia veramente avvenuta ed una viva speranza che tutto ritorni come
prima. Un altro elemento caratteristico di questa fase è la
collera, che va intesa come una componente comprensibile dello sforzo,
anche se infruttuoso, di rivolgersi al defunto come per riallacciare
il legame che è stato infranto.
Un'anziana vedova, sola senza altri parenti, inveiva ed imprecava
contro il marito perché, morendo, l'aveva abbandonata.
Di per sé la presenza della collera non comporta una prognosi
infausta, a livello psicologico. Se però persiste oltre le
prime settimane, esprime un adattamento patologico del lutto.
Fase di disorganizzazione e disperazione-riorganizzazione:
La piena consapevolezza della morte comporta inevitabilmente il passaggio
per uno stadio di profonda sofferenza e solitudine.
Per arrivare a ritrovare un nuovo equilibrio è necessario disfarsi
dei precedenti modelli che hanno guidato la vita assieme al congiunto
defunto.
La vera risoluzione del lutto comporta una revisione
dei precedenti schemi interni sulla base dei cambiamenti avvenuti
nella situazione esistenziale attuale.
Un vedovo non è più un marito, non può più
pensare in termini di "noi", ma deve riorganizzarsi sulla
solitudine della nuova condizione. Magari imparare a cucinare, a rassettare
la casa· a riprendere amicizie e abitudini abbandonate da tempo.
Trovarsi nuovi interessi, scoprire nuove motivazioni ed eventualmente
ristabilire nuovi rapporti affettivi. Verso la fine del primo anno
quasi tutti riescono a distinguere tra sentimenti, pensieri e modelli
di comportamento non appropriati e modalità che possono essere
conservate ulteriormente. È comprensibile che per molti vedovi
è proprio l'intenzione di mantenere sentimenti di attaccamento
al coniuge morto che garantisce la continuità del proprio senso
d'identità, consentendo loro di riorganizzare la propria vita
secondo programmi significativi.
Per esempio: una vedova vissuta dedicando la propria esistenza alla
vita familiare, che ha costruito tutta la sua identità sull'essere
moglie, non potrà rinunciare all'immagine di vedova senza perdere
la sua stessa integrità personale.
d) Varianti patologiche dell'elaborazione del lutto
Le manifestazioni più estreme di patologia
del lutto riguardano soprattutto la capacità del familiare
di stabilire e mantenere rapporti affettivi d'amore.
Si può parlare di lutto cronico nel caso in cui le reazioni
alla perdita siano insolitamente intense e prolungate. Nella maggior
parte dei casi persistono il rancore, la collera e gli autorimproveri,
mentre il dolore, la tristezza e la depressione sono quasi assenti.
Finchè sussistono queste reazioni la persona non è in
grado di far fronte a progetti futuri per la propria vita, e con il
tempo si possono manifestare reazioni dichiaratamente psicopatologiche
(depressione, alcolismo, fobie..)
L'altra variante è caratterizzata dall'assenza di lutto conscio,
per cui la vita del soggetto non subisce alcuna trasformazione, è
ferma all'organizzazione che caratterizzava la vita precedente alla
morte, ed è frequente che, in modo inaspettato, si presentino
in più svariati disturbi fisici e psichici.
I criteri che permettono di differenziare un'elaborazione sana del
lutto da forme patologiche sono soprattutto la durata, l'intensità
e la rigidità con cui certe reazioni si stabiliscono.
e) Funzioni del rito funebre
In alcune società il funerale rappresenta la cerimonia sociale più importante e più imponente come numero di partecipanti e come durata.
"il suo oggetto manifesto è il morto, ma è per coloro che restano·che in realtà viene celebrato il rituale".
Il rito ha un valore consultorio ed espressivo per
chi rimane, ed inoltre favorisce la coesione della comunità
attorno ai familiari del defunto.
Nonostante i modelli culturali differiscano molto nell'ampiezza e
nella durata, si possono individuare una serie di funzioni sociali
e psicologiche del rituale funebre:
- aiuta a prendere coscienza della realtà della perdita, fornisce
l'occasione di mostrare pubblicamente i propri sentimenti, definendo
i tempi e la durata appropriata del lutto;
- permette, agli altri membri della comunità, di tributare,
nei modi prescritti, un saluto al defunto;
- offre l'occasione al parente di accomiatarsi dal defunto, mostrando
l'importanza del proprio legame e la gratitudine attraverso la cura
particolare del cerimoniale, delle preghiere e del seppellimento;
- prescrive il periodo di tempo oltre il quale il lutto deve avere
termine;
- rinforza i rapporti di parentela e un senso rinnovato di appartenenza
alla comunità sociale.
Da queste brevi e sommarie considerazioni è facile rilevare
che il rituale funebre risponde a tutte le esigenze psicologiche ed
emozionali che caratterizzano la condizione di chi subisce una grave
perdita.
Nella nostra cultura il lutto, come insieme di riti, ha perso purtroppo
consistenza e significato. Così accade, sempre più frequentemente,
che si consumi, in assenza di qualsiasi forma sociale di sostegno,
e la solitudine del familiare si attua in forma privata ed isolata.
Il congiunto, stremato dopo la lunga assistenza, si ritrova soltanto
con le sue risorse psicologiche e sociali ad affrontare, in piena
solitudine, la tragedia della perdita. E non basta. I valori attuali
prescrivono, come adeguato, un lutto che non duri più di una
settimana: è questo il periodo "giusto", per il mondo
del lavoro, da dedicare al pianto, ed alla elaborazione della perdita,
per essere pronti ed efficienti a riprendere tutte le proprie attività.
Così si consuma, senza tragedia, la morte priva di senso!
Obiettivi
1. Facilitare l'espressione dei sentimenti del cordoglio.
2. Rassicurare circa l'adeguatezza e l'opportunità delle manifestazioni
personali del cordoglio.
3. Mostrare di non temere le espressioni di tristezza e di disperazione,
né risentirsi per le manifestazioni di collera.
4. Impedire l'isolamento della persona in lutto.
5. Mostrare solidarietà e comprensione attraverso un atteggiamento
di ascolto autentico.
Criteri terapeutici
Giova alla famiglia sapere che l'interesse per il
suo problema e per quello del malato non si è esaurito con
la morte.
Una vicinanza discreta nella fase del lutto deve consentire l'espressione
libera di tutti i sentimenti associati alla perdita.
Il vero conforto nasce dalla consapevolezza che il dolore e la tristezza
espressi sono incolmabili e incurabili e, pertanto, le facili rassicurazioni
possono sortire l'effetto di bloccare ogni espressione, chiudendo,
inevitabilmente, la possibilità di un conforto sincero.
Il senso di solitudine che segue la perdita di una persona cara, difficilmente
trova conforto e sollievo; però, superando i sentimenti di
ingratitudine e indifferenza, la presenza discreta e sensibile dell'operatore
può rappresentare una risorsa insostituibile.
È consigliabile far visita ai familiari a distanza di circa
due settimane dalla morte. In questo periodo, è possibile che
incominci a diluirsi lo shock. Il familiare potrebbe avere bisogno
di esprimere liberamente le sue emozioni, ma la paura di far preoccupare
gli altri parenti, o l'idea di creare disagio agli amici, mostrandosi
in lacrime, solitamente blocca ogni manifestazione del dolore. L'aiuto,
in questo caso, dovrebbe favorire la libera espressione e la graduale
accettazione della perdita. Nel caso in cui, invece, l'intensità
e la frequenza del cordoglio sembra non riuscire a ridimensionarsi,
è più opportuno aiutare il parente a "bloccare"
più che esprimere il dolore, permettendo di cercare nuove opportunità
per il suo sviluppo personale. Il cordoglio può essere vissuto
come il prezzo da pagare per l'amore perso, e così il familiare
tenderà ad evitare di "rischiare" di nuovo, riallacciando
altri legami affettivi. L'esperienza del lutto ha, senza dubbio, un
effetto dilaniante nella vita di una persona; può ridurre una
identità in brandelli ma permette, allo stesso tempo, un cammino
di crescita personale inesauribile. Come tutte le esperienze dolorose,
favorisce il ritorno a se stessi, l'esplorazione dei meandri più
oscuri della conoscenza di sé, modalità che rappresentano
le fonti più grandi della maturità, della ricchezza
personale.
Per l'operatore assistenziale, l'aiuto nel corso del lutto può
rappresentare una importante esperienza, sia professionale che personale,
per riappropriarsi del significato globale della vita e sentire come
il dolore acuto della perdita rappresenti una parte accettabile dell'esistenza.
III - LO STAFF ASSISTENZIALE
In questi ultimi anni, il ruolo terapeutico dell'infermiere, nell'assistenza al morente, è stato ampiamente rivalutato, alla luce del particolare tipo di relazione che si stabilisce nel corso di tutta la malattia.
"il medico prepara il domani dei suoi pazienti, guarendoli oppure no; il paramedico vive l'oggi con il malato, e la vita del malato oncologico è fatta soprattutto di tanti oggi che saranno più o meno accettabili per lui anche a seconda di come si sentirà aiutato ed incoraggiato nell'affrontarli".
È proprio in questo quotidiano incontrarsi,
che il morente può cogliere il valore della sua esistenza e
il senso della sua morte; e l'infermiere può sperimentare la
consistenza o l'insicurezza del suo modo di essere professionista
e persona.
Di fatto, però, molte ricerche hanno dimostrato che "l'infermiera
media, possiede ben pochi dei requisiti essenziali per stabilire un
valido rapporto".
Infatti, la malattia inguaribile e la morte rappresentano una condizione
di crisi anche per lo staff assistenziale che è obbligato a
confrontarsi con il limite reale del suo ruolo e della sua conoscenza.
Vengono capovolti i presupposti che hanno guidato l'iter formativo
di tutti gli operatori: salvaguardare, favorire e prolungare la vita.
E l'infermiere, come tutte le altre figure assistenziali, si ritrova
completamente solo, senza strumenti concettuali e tecnici, con a disposizione
soltanto la sua, misera o ricca, esperienza personale, ad affrontare
la complessa tragedia della morte.
Come è stato rivelato da molti autori, questo comporta un alto
costo in termini di stress personale.
È più che mai importante riconoscere che l'assistenza
al morente oltrepassa i confini di molti ruoli professionali. Il senso
di inadeguatezza, smarrimento e disagio che ne deriva, va colmato
da un opportuno lavoro di èquipe finalizzato:
- all'appropriazione di un approccio globale ed interdisciplinare
all'assistenza, capace di cogliere tutti i bisogni specifici del morente;
- alla consapevolezza dell'importanza di gestire, più liberamente,
le problematiche psicologiche personali che la morte evoca;
- alla gestione di uno stile di relazione, cioè un modo di
essere e di porsi, che accolga adeguatamente i bisogni che il morente
esprime.
Il rapporto con
"il morente non deve essere "privatizzato" da un singolo
operatore, ma deve essere di tutta una équipe. Certo ci sono
differenze di ruolo e di responsabilità, e un certo determinato
paziente può preferire rivolgersi ad un certo operatore; ma
ci deve essere un'atmosfera, un clima, una cultura di reparto che
permette, alimenta, sostiene questi incontri più personali;
e questa atmosfera non può passare che attraverso l'elaborazione
dei vissuti dell'équipe".
L'équipe deve contare sulla costante possibilità
di un sostegno psicologico per elaborare l'impatto emotivo della morte
su ognuno, deve strutturare uno spazio di riflessione e di formazione
sempre più specifica, ed organizzare un contesto per affrontare
i problemi interni dello staff curante, per prendere decisioni pertinenti
ad ogni malato.
I gruppi di discussione, con lo psicologo, rappresentano la forma
organizzativa ideale per garantirsi uno spazio di formazione permanente,
di sostegno personale, di decisione e verifica della prassi assistenziale.
a) Profondità di campo
Gli studi sulla percezione e sulla comunicazione umana hanno ribadito la centralità e l'influenza dei fattori cognitivi (l'insieme delle teorie, delle convinzioni, delle esperienze) di chi eroga una prestazione, nel fare forma alla realtà percepita, attraverso la selezione "automatica" degli elementi che saranno messi a fuoco, esaminati o trascurati.
"La costruzione soggettiva di una situazione particolare può essere paragonata al modo in cui si scatta una fotografia o si riprende un film... le specifiche caratteristiche dell'apparecchiatura (obiettivo, messa a fuoco, velocità) hanno un'influenza enorme sul prodotto finale... Ci possono essere sfocamento e perdita di importanti dettagli...l'uso di filtri di influenza ulteriormente il risalto e il colore di particolari elementi...Inoltre filmare una scena non è un processo passivo. Il ruolo del cameramen è fondamentale per selezionare particolari strategie: campo, primo piano, sfondo... Tutto questo ha un'influenza decisiva su ciò che si vede".
Analogamente, quando concettualizziamo una situazione,
il nostro "apparato cognitivo" influenza il modo di guardare
e vedere la realtà.
Un esempio: un impiegato, con una bassa autostima e convinzioni negative
su di sé, interpreterà facilmente il comportamento aggressivo
e distaccato del suo superiore, che sta vivendo una importante crisi
coniugale, come la prova delle sue convinzioni: essere antipatico
e inadeguato per il suo superiore.
È importante che ogni operatore, impiegato nell'assistenza
a persone che vivono situazioni tragiche e irrisolvibili, espliciti
a se stesso, con chiarezza, le convinzioni, i modelli e le motivazioni
che guidano e orientano il suo intervento assistenziale.
Non serve essere guidati da motivazioni e valori nobili e altisonanti;
è essenziale essere trasparenti con se stessi, per essere più
liberi nel rapporto con gli altri; tanto più che il confronto
con la tragedia della morte trasforma inevitabilmente ogni valore
astratto in mistificazione.
È inutile anche rielaborare le esperienze personali, sulla
morte e il morire, e riappropriarsi di un atteggiamento culturale
che restituisca valore alla vita e alla morte. Soltanto così
l'operatore potrà proporsi al morente come individuo intero,
capace di gestire l'impatto con le emozioni più drammatiche
e penose a cui il suo ruolo professionale non può sottrarsi.
b) L'esperienza delle "piccole" morti
Un modo per recuperare il significato della morte, da parte dell'operatore assistenziale, è confrontarsi con i limiti del proprio agire professionale, con l'insuccesso terapeutico, con le esperienze di separazione, di perdita e di lutto.
"la vita di ognuno di noi è costellata
di "piccole morti" o morti parziali. Quante volte siamo
chiamati a dire addio a delle cose, a lasciar cadere progetti, a separarci
da tante esperienze, da persone e da eventi che non torneranno più.
Sono morti parziali che, se integrate, ci preparano alla separazione
finale. L'esperienza più forte è la perdita di una persona
cara. S. Agostino nelle sue Confessioni, dice di aver vissuto la morte
di un amico come se fosse stata la sua morte. Non era più lui:
una parte di lui si era lacerata".
La depressione, in quanto esperienza emotiva associata alla perdita
e al senso di inadeguatezza personale, rappresenta un'opportunità
reale di approssimarsi al vissuto di morte.
"la depressione, come evento che riduce l'onnipotenza, ci fa capire che siamo esseri finiti, ci fa vivere un'esperienza di limitatezza che è come sentire la morte dentro... e nella misura in cui costituiscono una interiorizzazione dei limiti della nostra onnipotenza, le esperienze depressive rappresentano, in definitiva, una sorta di propedeutica alla morte".
Poiché non ci è possibile vivere la
nostra morte, possiamo tentare di recuperalra, reintegrando tutte
quelle esperienze dolorose, compresa la sofferenza e l'angoscia che
pervade, che rappresentano un'opportunità unica di crescita
personale e di integrazione dei valori fondamentali dell'esistenza.
A livello professionale ciò rappresenterà la base da
cui partire per stabilire una relazione di vicinanza empatica al morente,
unica garanzia per comprendere la condizione esistenziale del malato
e la validità del proprio ruolo.
"è stato accertato sperimentalmente che
l'esperienza della morte di persone care può aiutare nell'accostamento
dei moribondi...mi servo di un'immagine cui faccio ricorso frequentemente
nei miei corsi e nei miei scritti: l'immagine del guaritore ferito.
Divento capace di aiutare gli altri nella misura in cui divento capace
di vivere anch'io la ferita della morte, di tante morti parziali,
di perdite ricorrenti, che integro alla mia persona. Il vivere profondamente
un'esperienza di perdita, di distacco, ecc. suscita in me attitudine
alla comprensione e di partecipazione che mi abilitano a una relazione
di aiuto".
Il ricorso e la riappropriazione delle esperienze personali dolorose
rappresentano, per l'operatore, uno strumento concettuale insostituibile
per mettere a fuoco gli elementi caratteristici della sofferenza del
morente e dei suoi familiari.
c) la cultura attuale della morte
L'agire professionale è anche fortemente condizionato
dall'atteggiamento culturale dominante.
P. Aries, cultore della sociologia della morte, afferma che nella
nostra società, dominata dall'incertezza e dalla paura per
il crollo dei valori morali, non c'è più posto per la
morte; e definisce questo atteggiamento "morte rovesciata".
La morte è diventata un nuovo tabù; è considerata
sporca, vergognosa, da nascondere alla vista degli altri, da eliminare
o privatizzare.
Un'espressione di questo atteggiamento è, per esempio, l'imbarazzo
e il disagio che si prova di fronte ai morenti: si è perso
il riferimento di tutti quei rituali e quelle tradizioni che accompagnavano
le tappe essenziali della vita; parallelamente si è sviluppato
il mito dell'autocontrollo che limita l'espressione delle forti emozioni
associate al dolore.
"Spesso non si sa che dire: le frasi d'uso per
tali situazioni sono relativamente scarse ed un sentimento di imbarazzo
impedisce di parlare... per il moribondo questa può essere
un'esperienza amarissima, ancora vivo è già abbandonato...gli
uomini che sono a contatto con i moribondi non sono più in
grado di confortarlo, con la manifestazione del loro affetto e della
loro tenerezza. Fanno fatica a stringere la mano di una persona che
muore perché capisca che né devozione né protezione
sono venute meno...in tal modo diventa difficile parlare spontaneamente
con il morente, anche se si è pienamente consapevoli di quanto
egli ne avrebbe bisogno".
Tra la vita e la morte è stata inserita l'istituzione del progresso:
il morire è dato in gestione al medico e alle istituzioni sanitarie,
che, però, sono concepite per massimizzare il rendimento e
le prestazioni, e mal si adattano alle esigenze del malato in genere,
tanto meno ai bisogni del morente.
Paradossalmente i professionisti deputati alla salute sono impreparati
al confronto con la morte e, per difendersi, non possono che rimuovere,
negare e minimizzare la morte.
Ne è espressione il linguaggio sanitario che esclude ogni riferimento
esplicito alla morte, utilizzando, per esempio, terminologie asettiche,
quali: pazienti terminali o exitus, per riferirsi ai morenti e alla
morte.
Una tendenza alternativa che favorisce l'appropriazione di questa
realtà è la visione della morte come "mistero".
"quando dico mistero intendo qualcosa che non sta fuori di me, qualcosa che mi coinvolge, qualcosa che non posso evitare, ma che devo integrare".
Il recupero culturale della morte passa attraverso
la gestione del senso di incontrollabilità e di ineluttabilità
della morte.
Per far questo, occorre avviare una revisione critica del modello
di uomo proposto dagli effimeri valori dominanti.
Restituire spessore e senso alla malattia, alla sofferenza, al dolore
e alla morte, recuperare il valore e il significato della vita, individuare
"il fine ultimo dell'uomo", sono tutte operazioni di grande
importanza spirituale e morale, essenziali per problematizzare e rinnovare
il proprio essere professionista e persona.
d) La comunicazione interpersonale
Uno spazio particolare va riservato all'analisi della
comunicazione, che veicola tutte le forme di rapporto tra operatore
e paziente: dallo scambiarsi del saluto, al somministrare farmaci,
al comunicare la diagnosi... a "parlare delle condizioni atmosferiche".
La comunicazione non è semplicemente un modo per trasmettere
informazioni, come può essere leggere un trafiletto su un giornale.
È un processo che include, tra le righe, il "commento"
all'informazione stessa e il passaggio di una serie di "regole"
che servono a connotare il tipo di "relazione" e a stabilire
le modalità del rapporto con la persona alla quale si sta comunicando.
Per esempio: fin dal primo incontro, due persone definiscono il "senso"
del loro rapporto senza ricorrere a chiare esplicitazioni verbali
per dirigere i propri comportamenti.
Un esempio: in una seduta di psicoterapia, un marito ricordava che
la prima definizione affettiva del rapporto con la moglie era consistita
in una iniziativa di lui (ti voglio bene) cui lei aveva risposto di
rimessa ("anch'io"). Secondo il marito questo scambio iniziale
poteva riassumere benissimo tutto l'andamento affettivo e sessuale
di dieci anni di vita insieme. Qualsiasi iniziativa nelle decisioni
affettive, familiari e genitoriali, partivano da lui.
Questo breve esempio, al di là delle considerazioni cliniche,
illustra come le regole implicite in una comunicazione, anche se brevissima,
possono influenzare e guidare un rapporto anche per molti anni.
Analizziamo brevemente i processi di base utilizzati nella comunicazione
per la trasmissione dell'informazione:
- la comunicazione verbale: che consente una definizione più
accurata dei dati e il passaggio diretto dell'informazione, attraverso
le funzioni descrittive del linguaggio;
- la comunicazione non verbale: che riguarda gli aspetti cinestesici
(posture, atteggiamenti...) o paralinguistici (mimica facciale, gestuale,
sguardo, inflessione della voce) che assolvono a funzioni generali:
a) segnalare le emozioni: sorridere, piangere..., sono espressioni
delle emozioni di base.
"lo sfuggire sguardo diretto, il giocare nervosamente con la
penna, l'evitare la stanza di un determinato ammalato, lo sguardo
furtivo tra i medici, o medici e familiari al letto del paziente,
sono messaggi di gran lunga più espliciti di qualsiasi parola
pronunciata apertamente".
b) rinforzare la comunicazione verbale.
La comunicazione non verbale, in genere, è
correlata con quella verbale, cosicchè entrambe si presentano
come un insieme unitario ed articolato.
Per esempio: una persona che piange può commentare verbalmente
il suo comportamento, spiegando che è triste o non si sente
bene...
Può succedere invece che le sue forme di comunicazione non
siano perfettamente in linea, come nel caso di una persona con il
volto sorridente che dichiara di essere triste; può succedere
che non venga presa molto sul serio.
Tutto questo può accadere perché la comunicazione verbale
è direttamente sotto il controllo dell'attenzione e quella
non verbale lo è meno. Siamo inconsapevoli del gesticolare
o della mimica che accompagna i nostri discorsi, tanto più
se siamo concentrati su quello che stiamo dicendo.
Il messaggio trasmesso attraverso i canali non verbali può
disconfermare completamente quello verbale.
"si possono dire parole di speranza senza guardare
mai negli occhi, oppure rassicurare sulla guarigione e contemporaneamente
ridimensionare ogni progetto per il fututro...".
Qualsiasi forma di comportamento che in un dato contesto culturale
ha una funzione espressiva, rientra nella comunicazione non verbale.
Mandare dei fiori ad una ragazza è un messaggio, l'assenza
di risposta da parte di lei costituisce un altro messaggio. La comunicazione
è, quindi, organizzata simultaneamente a vari livelli di complessità
interagenti tra loro. Ne risulta che la comprensione del messaggio
può essere spesso confusa, compromessa e alterata.
Un errore che si osserva frequentemente tra gli operatori assistenziali
è ciò che viene definita "identificazione proiettiva":
se si è coinvolti nella relazione con un paziente, può
succedere che si tenderà a "trasferire", ad interpretare
il comportamento di un malato sulla scorta dei sentimenti o dei pensieri
che si proverebbero se ci si trovasse in una situazione analoga. Il
silenzio di un paziente disperato può essere interpretato erroneamente
come espressione di una ostilità nei confronti dei "sani".
Un dialogo spontaneo ed aperto nasce dal quotidiano incontrarsi in
un clima di ascolto, solidarietà e rispetto, fuori da qualsiasi
formula rigida e preconfezionata.
Un atteggiamento che favorisce una comprensione adeguata dei vissuti
e dei bisogni di un malato, evitando pericolose identificazioni, è
quello empatico : esso consiste nell'adottare la prospettiva e il
punto di vista dell'altro.
e) Elementi di una relazione di aiuto
Una delle cause di maggiore frustrazione per gli
operatori assistenziali è di non saper gestire adeguatamente
il rapporto con il morente: molti hanno paura di farsi coinvolgere
troppo, altri ritengono che sia utile dedicare tempo a pazienti destinati
a morire, se c'è bisogno di loro per malati che possono, invece,
guarire.
In genere, ognuno vorrebbe essere di aiuto, ma non si sa come e cosa
fare .
È opportuno raggiungere un equilibrio tra l'indifferenza e
l'eccessivo coinvolgimento: l'empatia rappresenta l'atteggiamento
che permette di "mettersi al posto dell'altro, di vedere il mondo
come lo vede lui".
"l'empatia è la capacità di lasciarsi coinvolgere nel mondo emozionale altrui e di prenderlo in considerazione; la persona empatica ... ha la singolare dote della comprensione: comprendere una persona significa mettersi nel suo angolo visuale per capire le cose come le capisce lui, adottare i suoi schemi mentali, ragionare partendo dalle sue premesse... comprendere una persona non significa condividere le sue idee o approvare le sue decisioni, ma rendersi conto che, nel suo quadro mentale, esse hanno una loro coerenza e una loro oggettività".
La necessità di promuovere una competenza relazionale nel personale assistenziale trova una risposta efficace nell'approccio definito "relazione d'aiuto".
"la relazione d'aiuto potrebbe essere vista come l'atto di promuovere in una persona, che si è affidata alla nostra professionalità, un migliore adattamento alla situazione che sta vivendo, per metterla in grado di superare le difficoltà e recuperare la salute o almeno quel grado di benessere psicofisico che è possibile".
La relazione di aiuto si rifà alla tradizione
umanistica in psicologia, ed in particolare al modello Carl Rogers.
Più che un esercizio di tecniche, rappresenta uno stile di
relazione, un modo di essere caratterizzato da atteggiamenti positivi
stabili: accoglienza, comprensione, ascolto attivo ed autenticità.
L'accoglienza rappresenta la prima forma di accettazione e riconoscimento
dell'individualità del malato.
Bastano gesti semplici ed immediati per evidenziare la disponibilità
verso di lui e creare un clima di rispetto. Presentarsi ad un malato
dicendo il proprio nome ed il ruolo che si ricopre, bussare e salutare
quando si entra in una corsia...: sono espressioni che hanno abbandonato
da tempo i reparti dei nostri ospedali, impegnati in rituali sempre
più frettolosi e distratti. Sedersi accanto al letto del malato,
ascoltarlo con attenzione, guardarlo negli occhi, sono espressioni
dell'interesse e della disponibilità nei suoi confronti. Accogliere
vuol dire mettere l'altro a suo agio, riceverlo con gentilezza e cortesia.
L'ascolto non è semplice sentire, è centrare l'attenzione
sull'altro, per relazionarsi a lui.
"L'ascolto è la pietra d'angolo su cui si basano tutte
le risposte generatrici d'aiuto, è una delle "carezze"
positve maggiormente apprezzate dalla gente. Infatti, quando uno si
sente ascoltato, ha la calda percezione di essere preso in considerazione
e, quindi, di valere agli occhi dell'interlocutore...l'ascolto autentico
non è di facile attuazione..., è un movimento attraverso
cui l'individuo, uscendo da se stesso, riconosce ed afferma l'alterità
di chi gli sta di fronte. Tale decentramento del soggetto implica
la capacità di fare silenzio nella propria dimora interiore,
sostanziata di bisogni desideri, stati emotivi. La difficoltà
dell'ascolto sta molto spesso in questo: nel momento in cui si vorrebbe
ascoltare l'altro che parla, ci sorprendiamo ad ascoltare noi stessi".
Anche nel malato sfiduciato, più chiuso in
ostinati silenzi, è difficile che si spenga il bisogno di comunicare
la propria sofferenza, di vederla accolta e partecipata.
Ascolto, rispetto, solidarietà riescono a bloccare molte resistenze
e ad offrire grande sollievo ad una angosciata disperazione.
I valori e i principi proposti dalla relazione d'aiuto sono comprensibili
in termini di esperienza quotidiana, armonizzabili con la visione
di una vita più "umana".
L'apprendimento, però, di questo modo di relazionarsi può
costruirsi lavorando direttamente e sperimentando in prima persona
la filosofia di base, i contenuti e le tecniche proposte.
Ancora una volta bisognerà "fare esperienza" diretta,
più che parlare di esperienza, ed i gruppi di discussione tra
gli operatori, potrebbero rappresentare il contesto ideale per avviare
questo tipo di formazione.