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Esperienze e contributi degli psicologi sanitari

AREA ETA' ADULTA E SENILE


PROBLEMATICHE PSICOLOGICHE E RELAZIONALI
Di Maria Grazia Foschino Barbaro
(da "L'INFERMIERE E IL MALATO GRAVE" , A cura di Vito D'Alessandro. Edizioni Camilliane. CAPITOLO I)

L'incontro con il morente implica il confronto con tutta una serie di questioni di ordine etico, psicologico e spirituale che si scontrano, nella realtà delle nostre istituzioni sanitarie, con una tradizione culturale fortemente riduttiva e parziale.
La malattia grave è un evento drammatico che ha l'effetto di esplosione devastante nella vita psicologica, familiare e sociale di una persona. E' una condizione che obbliga tutte le persone implicate, compresi gli operatori assistenziali, ad un confronto difficile con gli aspetti più dolorosi dell'esistenza: la sofferenza, l'invalidità, la perdita, la morte.
Eppure nella prassi quotidiana la complessità, la problematicità e la drammaticità di questa condizione, si perdono completamente: la malattia viene spogliata di significato e ridotta, soltanto, ad un infausto evento biologico.
Abitualmente accade che il paziente, dopo il doloroso e tormentato iter diagnostico, arriva al servizio assistenziale esibendo i sintomi, la malattia, il corpo stesso come qualcosa che non gli appartiene, estraneo, violento, con il vissuto di una inspiegabile punizione.
Dall'altra parte gli operatori si preoccupano del corpo, agiscono sul corpo, nel tentativo disperato di estirpare ãil male" e sfidare la morte.
In questo cammino frenetico, la sofferenza esistenziale non trova spazio; nei casi in cui diventa dilagante, si aggiunge l'opera di altri specialisti, gli psichiatri per sedare una angoscia che è solo una spia del dramma vissuto a livello personale: la persona viene divisa e frammentata ancora e l'intervento si scorpora ulteriormente.
Se la malattia si rivela inguaribile tutto appare inutile e senza scopo: impotenti, si rinuncia anche all'assistenza, in attesa che la morte sopraggiunga.
L'incontro tra il morente, la famiglia e lo staff, che si definisce "ssistenziale", si esaurisce in un silenzioso imbarazzo riempito da sguardi mancati, parole non dette, opportunità non colte, speranze disattese· e risulta frustrante per tutte le figure implicate.
Appare evidente perciò che la vera incurabilità del morente, al di là della preclusa guaribilità e della natura dei sintomi, è l'effetto soprattutto della parziale e mancata assistenza alla persona nella sua globalità. E' funzione della incomprensione della situazione esistenziale del malato e della sua soggettività.
E' l'esito della parzialità delle risposte offerte dagli operatori.
L'obiettiva complessità di un campo così problematico impone con urgenza l'elaborazione di modelli concettuali e operativi più adeguati ed efficaci. A questo scopo non serve un'ulteriore formazione specialistica. Piuttosto è utile ispirarsi ad una visione unitaria ed integrata dell'uomo, della malattia e della salute. Una diversa formazione, pur nella specificità personale di ognuno, rappresenta l'unica garanzia affinchè la richiesta accorata di "ssistenza", da parte del morente e della sua famiglia, possa essere percepita, accolta e ridefinita in una forma più aderente a tutti i bisogni che esprime. L'efficacia e la validità dell'assistenza al malato grave, non può essere misurata soltanto sull'adeguatezza delle prestazioni erogate o in base alla gestione attiva della malattia, da parte del paziente o della famiglia, ma sarà il risultato di una relazione interpersonale preziosa, costruttiva e significativa tra morente, sistema familiare ed operatori.
Su questo sfondo si colloca la nostra riflessione sulle problematiche specifiche avviate dalla malattia grave, anche se, per facilità di esposizione, affronteremo separatamente il punto di vista del morente, della famiglia e degli operatori assistenziali.
L'obiettivo è quello di fornire una visione d'insieme della dimensione psicologica, al cui interno ognuno possa sviluppare, recuperando il proprio bagaglio culturale e personale, una immagine rinnovata della propria professionalità.

I - LA PERSONA MALATA

La maggior parte della letteratura psicologica sul morente, deriva dagli studi empirici che hanno evidenziato soprattutto i sentimenti, gli atteggiamenti o i bisogni assistenziali che caratterizzano i diversi stadi di adattamento alla malattia. Tra questi è d'obbligo citare, per la rilevanza e la diffusione avuta, la ricerca condotta dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kubler-Ross che ha descritto l'evoluzione psichica del morente in cinque fasi: negazione_ collera _ patteggiamento _ depressione _ accettazione.
Personalmente ritengo che esistano notevoli differenze individuali nel reagire emotivamente alle situazioni, ed è difficile, se non addirittura arduo, stabilire alcune categorie concettuali definitive, senza far riferimento costante a fattori discriminanti, quali:
- lo stadio di vita e l'età del malato;
- l'Identità e l'Immagine personale;
- lo stile di risposta allo stress;
- lo stile emozionale;
- le esperienze precedenti..ecc.
di fatto, se entrassimo nel merito dell'analisi di tutti questi fattori, andremmo ben oltre gli obiettivi di questo capitolo. Ciò che mi preme illustrare, è la serie di processi psicologici attraverso cui il malato comincia a concepire, realizzare (nel senso di prendere coscienza) e integrare, l'esperienza della malattia e la percezione della morte.
A questo scopo utilizzerò le conoscenze sul modello di risposta allo stress, che rende ragione non solo della significatività dell'evento malattia, ma anche della rilevanza che questo avrà per la soggettività della persona malata.
Le più recenti acquisizioni della ricerca sullo stress sostengono che il vissuto soggettivo e il tipo di adattamento ad una particolare situazione sono determinati:
1) dal significato personale attribuito alle circostanze che l'individuo vive;
2) dal giudizio e dalla stima delle risorse personali e delle capacità di fronteggiare queste circostanze.
Si ha stress psicologico, nel caso in cui una esperienza, valutata come minacciosa per il dominio personale, supera notevolmente la capacità personale di fronteggiarla.
Per esempio: un ragazzino affrontato da un prepotente, più grande di lui, può prevedere facilmente di essere malmenato (in questo caso attribuisce alla situazione il significato di pericolo e minaccia) e che le sue forze non potranno consentirgli di difendersi adeguatamente (attua una valutazione negativa della propria capacità di difesa). Il senso di vulnerabilità e di insicurezza personale, che ne deriva, rappresentano una misura dello stress psicologico. Le risposte emozionali come l'ansia, l'agitazione, la collera e i comportamenti di fuga o aggressione, costituiscono le strategie per rispondere concretamente alla situazione.
I succitati processi di valutazione sono caratterizzati da considerazioni inconsapevoli, in genere molto rapide ed automatiche, che avvengono fuori della coscienza.
Questi processi sono fortemente interdipendenti e non separabili, ma è utile richiamare l'attenzione sulle caratteristiche specifiche di ognuno.

a) Il significato della malattia.

La valutazione della malattia, dalla scoperta dei sintomi all'avvicinarsi della morte, si costruisce su vari fattori tra cui:
- esperienze precedenti;
- convinzioni personali sulla malattia;
- modalità di insorgenza dei sintomi;
- gravità e limitazioni implicate.
- In termini generali, la malattia determina sempre una condizione di profonda crisi sia biologica - per le sofferenze, i disagi, le limitazioni che comporta - sia esistenziale, per le ripercussioni che ha sullo stile di vita, sull'identità, sulla progettualità dell'individuo. La malattia

"disorienta la propria identità: interrompe e disorganizza l'abituale ritmo di vita, mette in crisi i rapporti con il proprio corpo e con il mondo in cui l'individuo vive, è una situazione che modifica e fa perdere i ruoli professionali e familiari".

Impone la costruzione di nuovi modelli di comportamento e l'elaborazione di una nuova immagine personale.
In particolare la malattia grave è vissuta come imponente minaccia alla integrità biopsichica ed è associata, dal suo primo manifestarsi, ad un inquietante messaggio di morte.
La percezione della morte, anche se con fenomeni clinici diversi, colora ogni momento dell'iter evolutivo della malattia: la diagnosi, la terapia, l'eventuale intervento chirurgico, la fase terminale.
Più di ogni altra malattia a prognosi infausta, la diagnosi di un tumore maligno elicita sentimenti di angoscia, dolore, isolamento e morte. È associata a fantasia e immagini di sofferenza prolungata, di dolore totale ed incoercibile ed è comunque vissuta come una sentenza di morte.
Queste convinzioni, accanto ad altri fattori culturali e sociali, condizionano l'atteggiamento del paziente nei confronti delle terapie e dei trattamenti proposti: favorendo ora la rassegnazione, la rinuncia, la sfida o il vissuto della morte già durante la vita. Non solo. Le recenti indagini di psicoimmunologia sostengono che le convinzioni cognitive e le emozioni giocano un ruolo centrale nell'eziologia e nel decorso della malattia oncologica: amplificano e intensificano la sintomatologia fisica e influenzano la durata della vita stessa.
Un importante studio, sulla lunghezza media della vita di pazienti con patologia oncologica incurabile, ha riscontrato che la lunghezza della vita era correlata significativamente alla capacità del malato di mantenere relazioni interpersonali attive e reciproche.

Obiettivi
1. Far emergere le convinzioni e i vissuti che accompagnano l'evoluzione della malattia.
2. Fornire informazioni più realistiche sulla curabilità dei sintomi.
3. Attraverso il controllo della sintomatologia fisica, modificare l'attitudine negativa verso la malattia.
4. Aiutare il malato ad orientare le aspettative su obiettivi che puntino alla qualità di vita.

Criteri terapeutici

Il cancro mantiene ancora una connotazione fortemente negativa ed è valutato, facilmente, su convinzioni irrazionali, nonostante le attuali conoscenze tecnologiche e scientifiche e gli opportuni interventi preventivi abbiano permesso di contenere l'incidenza della mortalità e dominare il dolore e la sintomatologia fisica.
Senza entrare in merito alle problematiche relative alla comunicazione tra operatori e paziente, mi preme sottolineare che è più utile valutare il grado di consapevolezza, le idee e le opinioni che il paziente si è costruito sulla sua malattia piuttosto che interrogarsi sulle "verità" da comunicare.
Attraverso un atteggiamento di ascolto si rileveranno tutte le fantasie o le verità intuite, le paure esagerate o le rassegnazioni necessarie, cioè l'interpretazione soggettiva dell'esperienza di malattia. Su queste informazioni è opportuno costruire il proprio comportamento assistenziale.

"si può contare non sull'informare il paziente, ma sullo stare con il paziente, non sulla verità ma sul rapporto. È all'interno di questo rapporto che la parola e l'informazione trovano la loro strada e il loro vero significato".

L'atteggiamento più opportuno è quello di complementarsi al paziente, mettersi in rapporto con lui, e affrontare le problematiche che pone con gradualità, rispettando i suoi tempi e le sue strategie, risparmiandogli inutili ansie con opportune informazioni.
Un paziente, tormentato dalla paura di morire tra atroci dolori, può essere tranquillizzato dalla constatazione che saranno impiegate tutte le terapie opportune per placargli il dolore e consentirgli una adeguata qualità di vita.
La "correzione" delle convinzioni irrazionali può far emergere nuove motivazioni che facilitano l'adattamento alla malattia.
È utile insistere sul concetto di cronicità della malattia per facilitare al paziente la costruzione di uno stile di vita che includa le limitazioni che, progressivamente, la sua condizione gli imporrà.
La qualità di vita del malato sarà migliore se gli si offre l'opportunità di confrontarsi, poco alla volta, con l'irreversibilità della sua malattia.

b) La gestione della malattia.

Per fronteggiare le richieste imposte dagli eventi stressanti vengono utilizzate diverse attività di gestione.
La valutazione delle scelte e delle possibilità di gestione è influenzata essenzialmente da:
- precedenti esperienze in situazioni analoghe;
- convinzioni generalizzate su di sé e sull'ambiente;
- disponibilità di risorse personali (sicurezza, fiducia, autostima);
- risorse ambientali (sostegno sociale, rapporti affettivi e significativi).
- Prima di entrare in merito all'argomento specifico, vorrei chiarire una serie di aspetti psicologici essenziali.

Convinzioni su di sé: sono degli insieme di atteggiamenti nei confronti di se stessi, costituiti da generalizzazioni derivate dalle interazioni avute con l'ambiente familiare e sociale. Dipendono largamente dalle esperienze infantili, dai giudizi degli altri sulla propria persona, dalle identificazioni con figure significative. Con l'età adulta, i concetti di sé si strutturano in modo stabile, in uno schema cognitivo che influenzerà la valutazione di giudizi successivi.
Un esempio: genitori ansiosi ed iperprotettivi, tenderanno a limitare la vita extrafamiliare del figlio, descrivendogli l'ambiente sociale come pericoloso e contemporaneamente proponendogli un'immagine personale di fragilità. Il figlio accetterà la protezione eccessiva, giustificandola attraverso la sua intrinseca fragilità. Su questo dato costruirà la sua identità personale. Con il progredire dell'età, tenderà a mettere in risalto tutti i dati e le esperienze che gli confermano l'idea della sua debolezza e dell'ambiente minaccioso. Queste conoscenze, con l'età adulta, diventeranno stabili e automatiche, influenzando i suoi comportamenti e le sue emozioni: quando sarà lontano da casa si sentirà stranamente strano ed ansioso; così progressivamente, tenderà ad evitare queste situazioni negative, mantenendo una rassicurante vicinanza alle figure che vede come protettive.
In conclusione, i concetti di sé, come identità personale, rappresentano quindi una specie di filtro, una lente attraverso cui si legge la sua realtà interna ed esterna.
I nuclei dei concetti di sé, positivi e negativi, determinano la direzione dell'autostima e della fiducia personale.
Fiducia di sé: si riferisce ad una costellazione di atteggiamenti implicanti una valutazione personale delle proprie capacità strumentali e delle possibilità di poterle esercitare. Il senso di sicurezza e di padronanza dipendono dalla convinzione di riuscire a fronteggiare adeguatamente qualsiasi situazione.
La prospettiva della malattia e della morte, mette in crisi i metodi abituali di reazione e sconvolge i comportamenti usuali. In questo senso rappresenta una minaccia al senso globale dell'identità e dell'immagine personale.
L'idea della irreversibilità della malattia e la consapevolezza dell'approssimarsi della morte, rappresentano già un pericolo da cui è necessario difendersi. Ed a questo proposito vengono utilizzate tante strategie mentali per non sconvolgere l'individuo.
Un esempio significativo di come il senso di insicurezza influenzi i sentimenti ed i comportamenti, è proposto da R. Burton:

"poniamo il caso che uno si trovi a camminare sopra un asse; se questo giace al suolo, riesce a farlo con sicurezza, ma se lo stesso asse è sospeso sopra delle acque profonde, al posto di un ponte, egli si sentirà barcollare impetuosamente e, ciò non è null'altro che la sua immaginazione, l'idea di cadere si imprimerà su di lui, e ad essa le sue membra e le sue facoltà ubbidiranno".

Per comprendere le modalità che il malato usa per evitare la consapevolezza piena della sua condizione, è utile soffermarsi brevemente sui processi utilizzati per elaborare le informazioni percettive.
Innanzi tutto va chiarito che nel corso della vita gran parte dei dati percettivi sono esclusi da ulteriori elaborazioni consapevoli, per evitare un sovraccarico, per l'individuo, e una costante distrazione della sua attenzione.
La consapevolezza, inoltre, va intesa come un continuum, piuttosto che come una dicotomia che separa l'esperienza conscia da quella inconscia, ed è caratterizzata da vari livelli di elaborazione.
Nel caso di valutazioni minacciose per l'equilibrio personale, come è la paura della morte, l'individuo potrà gestire, in modo automatico e non consapevole, l'informazione graduando la consapevolezza della sua condizione attraverso una esclusione, parziale o completa, dei dati incriminati.
- Alcuni individui, che hanno costruito l'identità personale su convinzioni di particolare vulnerabilità e incapacità a gestire forti emozioni, tenderanno ad escludere completamente tutti quei dati percettivi che evocano l'idea della malattia grave (sarà negato il significato degli esami strumentali o delle terapie specifiche dello stesso reparto di degenza..). questo spiega perché anche persone con appropriate conoscenze scientifiche, possono, nel caso in cui la malattia li riguarda direttamente, ãnon capire" completamente l'esperienza che stanno vivendo.
- R. Buckman riferisce, a questo proposito, un episodio particolarmente significativo:

Un famoso medico fu ricoverato nel suo stesso ospedale per un intervento esplorativo. Si scoprì che aveva un tumore incurabile al pancreas allo stadio avanzato. La diagnosi gli fu comunicata dal chirurgo alcuni giorni dopo l'operazione, ma ogni giorno si rivolgeva al chirurgo con la stessa domanda:" cosa hai scoperto con l'intervento?" il chirurgo che conosceva bene il paziente come collega ed amico rispondeva: ãho trovato un tumore al pancreas te l'ho detto ieri". Ci vollero circa due settimane prima che il paziente scoprisse che ricordava la diagnosi".

- In altri individui, si può osservare l'esclusione della paura dai processi di elaborazione superiore, riscontrando però l'influenza delle risposte vegetative e/o emozionali.
Un paziente può, per esempio, sentirsi completamente calmo e parlare della sua malattia con un adeguato controllo, e contemporaneamente lamentare un aumento della sua sintomatologia fisica.
Un altro può sentirsi inquieto ed ansioso, senza riuscire però ad individuare le ragioni della sua paura.

- In altre situazioni, la paura può raggiungere uno stadio più complesso di elaborazione, ma per controllare l'impatto emozionale vengono costruite strategie comportamentali del tutto particolari. In questo caso, per esempio, il paziente può focalizzare la sua paura su circostanze poco significative, o credere di essere preoccupato per problemi dei suoi familiari.
Alcuni possono limitare la loro comunicazione a inezie e banalità, e cercare di distrarsi per non pensare e non riflettere alla realtà della propria condizione.
In generale l'esclusione selettiva è un processo adattivo che permette di attutire e mitigare l'impatto violento di informazioni minacciose. Ci sono ampie variazioni nella durata e nel grado di questo evitamento, però se l'esclusione è attiva per lungo tempo può rivelarsi disadattiva e funzionale.
Un esempio può essere rappresentato dal ritardo diagnostico, in cui la scoperta dei sintomi non è seguita dalla conseguente consultazione. In questo caso, l'esclusione dalla coscienza del significato angosciante attribuito al sintomo, non permette di sollecitare le risposte emozionali specifiche, come l'ansia, né predisporre comportamenti relativi alla presa in carico del problema.

Obiettivi
1. Avviare un confronto costante, all'interno dell'equipe, su queste problematiche.
2. Rilevare le modalità usate dal malato per graduare l'impatto della malattia.
3. Valutare gli atteggiamenti nei confronti della terapia e dei programmi di cura, come espressione del disagio di rapportarsi alla malattia.
4. Offrire adeguate opportunità per passare gradualmente da un atteggiamento di evitamento nei confronti della coscienza dello stato di malattia, ad una graduale e progressiva consapevolezza.

Criteri terapeutici
Le considerazioni sulle strategie difensive vanno estese anche ai familiari ed agli operatori assistenziali. Come vedremo meglio in seguito, di fronte all'individuo che fa i conti concretamente con l'angoscia della sua morte, è inevitabile per chiunque una pericolosa identificazione che rimanda alla propria morte.
La consapevolezza della complessità della modalità difensive deve mettere in guardia da interpretazioni semplicistiche dell'altrui o dei propri comportamenti.
L'organizzazione sotto la direzione di uno psicologo, di gruppi di discussione tra gli operatori, può fare da argine a grossolani errori terapeutici ed a pericolose identificazioni.
Utilizzare l'équipe come metodologia di lavoro favorisce l'analisi corretta delle problematiche specifiche del paziente, delle dinamiche personali di ogni operatore e dei conflitti interni dello staff assistenziale.
Solitamente è opportuno, dopo le necessarie discussioni di équipe, mediare l'intervento psicologico sul paziente, utilizzando la trama dei rapporti già costituiti, a partire dalle competenze professionali (l'infermiere o il medico).
In particolare, il contributo dell'infermiere è di farsi portavoce dei disagi del paziente e, dopo avere messo a punto in équipe le strategie assistenziali più efficaci, mediare l'intervento sul paziente.
Ciò che è importante è avere la possibilità, dopo opportuna formazione, di cogliere certi elementi significativi.
Un ascolto attento ed una osservazione sensibile può far mettere a fuoco tutti quegli elementi che indicano un disagio particolare nell'adattarsi alla malattia.
In generale è importante interrogarsi su come si può facilitare al paziente la presa di coscienza dell'esperienza che lo aspetta. I dati clinici dimostrano che si offre ad una persona l'opportunità reale di confrontarsi con la propria condizione, e si incoraggia l'espressione dei sentimenti, il paziente tenderà progressivamente ad una piena realizzazione della situazione, senza soffrire angosce e disperazioni opprimenti.

c) La reazione di paura.

Tutto l'iter diagnostico può essere accompagnato da previsioni e condizioni che qualcosa di particolarmente grave possa accadere.
La paura, più che una reazione emotiva, rappresenta la presa di coscienza del pericolo, la previsione ed il riconoscimento dell'approssimarsi della morte.
Tipico della paura è l'orientamento verso il futuro, nel senso che le conseguenze, rappresentate a livello mentale, non sono ancora accadute, ma hanno grandi probabilità di verificarsi. Ne deriva che la reazione di paura è intrinsecamente permeata di speranza, cioè implica una attesa fiduciosa che le previsioni drammatiche possano anche non realizzarsi. È proprio questo ingrediente che può essere utilizzato, non tanto per costruire fantasie irrealistiche, quanto per motivare il paziente a polarizzarsi su nuove motivazioni e accettare programmi e terapie penose e stressanti.
Si possono avere:
- paure legate alle conseguenze della malattia: debilitazione, sofferenza, dolore, perdita di autonomia, solitudine, isolamento, ignoto, morte·
- paure per le persone che si lasciano e i progetti che si abbandonano: separazioni, perdite, responsabilità·
M. Parker ha riscontrato che le paure più frequenti sono:
- paura di separarsi dalle persone amate (38%): è la prima a manifestarsi allorché viene richiesto il ricovero in ospedale. Se il paziente ha il coraggio di confrontarsi con la morte, la paura si trasforma in dolore, che può essere mitigato se si mostra agli altri;
- paura di dipendere dagli altri, di perdere il controllo delle facoltà fisiche, di dover essere accuditi (23%): si osserva frequentemente in persone autonome e sicure che nel corso della loro vita hanno preferito occuparsi di altri piuttosto che essere accuditi. È importante rispettare la loro indipendenza, evitando atteggiamenti troppo protettivi;
- paura di lasciare il coniuge, o bambini che dipendono da loro (20%): per madri, in particolare, è difficile credere che i propri figli potrebbero sopravvivere senza di loro. È opportuno per la famiglia affrontare immediatamente questo timore e tentare di trovare delle soluzioni che ãtranquillizzano", piuttosto che rimandare la decisione;
- paura di fallire nel portare a termine un programma o un dovere importante (10%): per alcuni è difficile accettare che le proprie speranze possano morire. In questi casi la rabbia è l'emozione più frequente;
- paura del dolore o di eventuali mutilazioni (7%).

ã il corso delle reazioni emozionali va da episodi di ansia ad episodi di depressione, seguiti da periodi di relativa tranquillità e adattamento, fino alle successive svolte critiche · è difficile, per il paziente e per il medico individuare in anticipo i periodi critici e sapere con certezza il tempo che rimane da vivere, per il carattere imprevedibile e irregolare della malattia stessa".

È inutile riconoscere i contenuti emozionali specifici per risalire e come il paziente vive la propria malattia, allo scopo di costruire strategie assistenziali.
Ansia: è uno stato d'animo di tensione e agitazione; definisce un continuum di sensazioni che vanno dalla tensione al panico, allo shock..
Entro certi livelli di intensità, l'ansia ha una funzione adattiva, cioè, attrae l'attenzione dell'individuo e la distoglie da altri interessi e preoccupazioni. Accelera le reazioni e accresce il senso di emergenza, tanto da permettere alla persona di mobilizzarsi per la ricerca di soluzioni.
Più che un processo emozionale patologico, l'ansia rappresenta l'espressione indispensabile, potremmo dire fisiologica, del senso di minaccia rappresentato a livello cognitivo dalla paura.
Può essere paragonata alla febbre o all'esperienza del dolore, che sono soltanto espressioni di un processo infettivo sottostante. Pertanto, con opportune terapie farmacologiche, si può ridurre l'emozione dell'ansia, ma non si può eliminare la paura che il malato prova per la sua condizione.
L'ansia può manifestarsi con sintomi di varia natura:
- sintomi di natura fisiologica: per es. vertigini, sudorazione, tremori, tachicardia, dolori, difficoltà respiratorie, agitazione, tensione, debolezza·
- sintomi sensoriali-percettivi: senso di irrealtà, ipervigilanza, stordimento·
- difficoltà di pensiero: confusione, amnesie per informazioni importanti, distraibilità, difficoltà di concentrazione, difficoltà nel ragionamento, blocco mentale·
Condizioni di incertezza e circostanze indefinite agiscono amplificando l'intensità emozionale, perché la mancanza di elementi su cui costruire previsioni ed aspettative aumenta il senso di incapacità personale e di insicurezza e il conseguente vissuto di pericolo.
Per questo motivo è importante spiegare al malato ed ai suoi familiari, con la massima chiarezza, lo scopo, gli effetti dei trattamenti e degli stessi accertamenti diagnostici. L'informare sulle procedure, i tempi necessari, le modalità· risparmia al malato ansie inutili e favorisce reazioni più positive ed atteggiamenti collaborativi.
È invece decisamente inopportuno riferire al paziente dubbi o incertezze terapeutiche, che potrebbero sortire l'effetto di diminuire la fiducia e l'affidabilità dello staff curante.
Panico: è caratterizzato da stati di ansia acuta e intensa, accompagnati da un senso di catastrofe incombente. Se l'angoscia è tale da invadere completamente il senso globale dell'identità, possono essere attivate risposte ãprimarie", che fronteggiano in modo immediato l'angoscia (blocco mentale, svenimento, senso di impotenza).
Shock:un aspetto disabilitante specifico è la sensazione di essere incapaci di pensare ed agire. Si è travolti da un senso di impotenza e paralisi, che distoglie l'attenzione dai contenuti mentali di paura, e spinge l'individuo a ricercare aiuto, la vicinanza e il sostegno di figure rassicuranti.
Questo comportamento, frequentemente definito ãregressione", è tipico delle condizioni di malattia.
La richiesta di aiuto è comprensibile nella condizione di insicurezza personale, associata alla malattia, come strategia di gestione per tamponare i sentimenti di inadeguatezza e vulnerabilità personale.
In conclusione, il primo impatto con la malattia può essere caratterizzato da tensione ed apprensione, alterati ad una innaturale calma apparente che può essere infranta da violenti attacchi di panico. Questa condizione può durare qualche settimana o perdurare fino alla morte, se c'è una grande difficoltà a concepire la malattia e la morte stessa.
Via via che aumenta la consapevolezza, anche se in modo intermittente, si manifesta una maggiore irrequietezza motoria e il paziente può apparire molto agitato.
Si determina una condizione di tacita ambivalenza: da una parte il malato non può credere che ciò che sta succedendo sia vero e reale, dall'altra parte nutre la speranza illusoria che tutto torni come prima. Una caratteristica emozionale specifica di questa rappresentazione è la collera.
Collera: in alcuni ha l'aspetto di una irritabilità e amarezza generale.
In molti sembra orientata proprio verso i ãsoccorritori": i medici, gli infermieri, i parenti· ritenuti responsabili delle sofferenze patite.
Paradossalmente, la presenza di questa emozione indica che il processo di adattamento alla malattia è ancora parziale, e la collera può essere suscitata perché l'attenzione è spostata sulle persone, ritenute responsabili, piuttosto che sui contenuti della propria paura. Collera e risentimento rappresentano una componente comprensibile dello sforzo, anche se irrealistico, di negarsi la realtà della propria tragedia e di ripristinare le condizioni preesistenti.
Si può ipotizzare che la collera sia più frequente da parte di persone la cui immagine personale si è costruita su definizioni di autonomia, indipendenza, intraprendenza e forza.
In questo caso la collera rappresenta anche una modalità per negare l'immagine di passività e dipendenza che la malattia evoca.
L'intensità della collera è proporzionale a quanto la malattia venga vissuta come ingiusta ed arbitraria: nel caso di pazienti giovani, la malattia si frappone alla realizzazione di sé e dei progetti per cui si è speso gran parte dei propri sogni. La collera è così una reazione comprensibile del disperato tentativo di ãcombattere" l'inevitabilità della morte.

Obiettivi

1. Incoraggiare il paziente a verbalizzare le sue fantasie ed a manifestare liberamente le emozioni.
2. Prestare attenzione ai termini che il malato usa per descrivere i sentimenti, e il grado di sopportazione che esprime.
3. Accettare le modalità espressive del malato.
4. Costruire atteggiamenti di accettazione nei confronti di modalità aggressive.
5. Avviare un confronto positivo quando il paziente è pronto a prendere posizioni più adeguate.
6. Incoraggiare la presenza ed il conforto da parte dei familiari.

Criteri terapeutici

È facile comprendere l'angoscia e l'ansia di una persona affetta da una malattia a prognosi infausta, tanto da scoraggiare inconsapevolmente, ulteriori riferimenti alla sua condizione, o dare per scontate le ragioni personali del morente.
È opportuno permettere al paziente di parlare liberamente: si riferisce di sentirsi terrorizzato all'idea di morire, invece che rispondere frettolosamente ãsì, capisco" e cambiare discorso, ci si può sedere accanto a lui e sollecitarlo a parlare, o rispondere con un comportamento non verbale di attenzione ed ascolto.
Il comportamento non verbale può essere più eloquente di tante parole.
È impossibile trovare delle formule giuste in assoluto, indipendentemente da ciò che vive e sente il paziente.
Una formazione psicologica adeguata, una capacità di ascolto empatico, la conoscenza di se stessi ed il credere nelle proprie capacità, sono tutti ingredienti essenziali per favorire l'intuizione del momento in cui è più opportuna una pausa di silenzio, un sorriso, prendere la mano·incoraggiare il malato, distrarlo.
È importante stabilire che le emozioni, che accompagnano l'evoluzione della malattia grave, sono soltanto un'espressione del faticoso tentativo di elaborare l'idea della morte.
È comprensibile la collera di cui non ha più il controllo sulla sua vita. Ogni tentativo di ridimensionarla con argomentazioni facili e razionali tende a fallire.
Alcuni pazienti sollecitano costantemente atteggiamenti di vicinanza e cura che mascherano una angoscia incontrollabile.
Si può comunicare comprensione dicendo semplicemente: ãsento che è molto difficile sopportare questa situazione", favorendo al morente la possibilità di esplicitare le proprie paure.
Altri malati si mostrano particolarmente riservati e chiusi. Non bisogna farsi intimidire da un atteggiamento che forse esprime il senso di umiliazione per aver perso il controllo delle proprie funzioni, o il disagio di sentirsi dipendenti.
Un atteggiamento dolce e discreto può favorire una maggiore familiarità e la disponibilità ad un dialogo più aperto.
Molte paure possono essere sollevate dall'incoraggiare la famiglia a stare attorno al paziente senza limiti particolari di orari.

d) La dimensione della perdita.

Quando la malattia incomincia ad intaccare più pesantemente la qualità di vita, la speranza svanisce e l'incredulità può essere interrotta da eccessi di acuta sofferenza e disperazione.
Le precedenti paure si trasformano nell'amara e dolorosa consapevolezza della ãperdita": la perdita inevitabile delle persone amate, dei beni più preziosi che hanno guidato la vita·
Il futuro appare vuoto ed inesistente; ogni sforzo diviene inutile e troppo faticoso in mancanza di mete ed obiettivi da raggiungere.
Il paziente si rammarica per avere perso ogni fonte di soddisfazione: la salute, l'autonomia, il lavoro, le responsabilità familiari, gli affetti·
Progressivamente può perdere ogni motivazione e ogni attaccamento all'esistenza: la malattia e la sua irreversibilità sembrano vanificare ogni tentativo di prolungare la vita stessa ed il paziente può essere sopraffatto dalla più cupa disperazione.
In questa condizione, il morente può manifestare il desiderio di interrompere ogni trattamento e può considerare l'idea del suicidio.
Il desiderio di morire può essere espressione del fatto che la malattia ha reso la vita invivibile, tanto che la morte appare una desiderabile liberazione; oltre che esprimere il desiderio di essere aiutato a vivere l'esperienza del morire.
Paradossalmente, il desiderio di morte può facilitare e riaprire la comunicazione con chi è deputato ad assistere.
Purtroppo in ospedale al morente si richiede che

"viva correttamente, cioè mantenga la compostezza dei nervi, sia coraggioso, gentile con tutti, si mostri fiducioso, si lasci curare e non provochi stress eccessivi né alla famiglia né allo staff dei curanti, sopporti gli altri pazienti, insomma si richiede al paziente che ãnel morire mostri uno stile accettabile di vita".

Il desiderio di morire, in genere, non è verbalizzato chiaramente, ma si manifesta in modo indiretto attraverso il lasciarsi andare, il silenzio ostinato, la resistenza passiva alle terapie.
Senza un rapporto significativo con il morente non è possibile cogliere il disperato bisogno di aiuto che si annida tra le maglie del silenzio.
Depressione: il disturbo principale può assumere varie forme:
- uno stato emotivo spiacevole, che va dalla tristezza, alla disperazione, all'apatia;
- un mutato atteggiamento nei confronti della vita. L'imminenza della morte può portare a sviluppare un senso di fallimento personale associato ai sensi di colpa, di punizione o di autoaccusa;
- sintomi somatici tipici: dolori diffusi o localizzati, anoressia, disturbi del sonno·possono interferire ed amplificare la sintomatologia fisica associata alla malattia;
- sentimenti di profonda solitudine.
- In questa fase diventano urgenti gli interrogativi sul senso della vita, della sofferenza, della morte; è particolarmente importante offrire un sostegno spirituale.

"il modo in cui si muore dipende in non poca misura anche dalle possibilità che un individuo ha avuto di porsi, e raggiungere, delle mete durante la vita. Dipende da quanto una persona, in punto di morte, sente d'avere trascorso una vita piena e serena o vuota e senza senso· l'attuazione del senso dell'individuo· è strettamente correlata al significato che egli è riuscito a raggiungere per gli altri, durante la vita, mediante la sua personalità, il suo comportamento, il suo lavoro".

A maggiore ragione è possibile far recuperare il senso della propria vita e del proprio morire, dimostrando al morente, attraverso la cura e l'interesse per il suo benessere e la sua persona, che non ha perso importanza per noi.
Una adeguata vicinanza in questa fase può favorire al malato la possibilità di ãpacificarsi" con i suoi ricordi e la memoria della sua vita, distaccandosi più facilmente dall'esistenza.

"c'è un periodo in cui il malato annulla tutti gli apporti esterni, comincia a distaccarsi, diventa molto introspettivo, cerca di ricordare eventi e persone che sono stati importanti per lui, e rielabora ancora una volta la propria vita passata, forse in un tentativo di riassumerne il valore e cercarne il significato".

Progressivamente il malato può arrivare ad adattarsi all'imminenza della morte: ã non è una fase felice, ma un vuoto dei sentimenti, il riposo finale prima del lungo viaggio".

Obiettivi

1. Mostrare disponibilità a confrontarsi con temi e fantasie depressive.
2. Facilitare l'espressione emozionale del dolore e della disperazione.
3. Sostenere la famiglia che si confronta con la prossimità della perdita del congiunto.
4. Riconoscere l'adeguatezza delle emozioni e delle convinzioni evocate dalla morte.
5. Evitare di parlare delle proprie angosce o di quelle degli altri, per consolare il malato.
6. Favorire l'assistenza diretta dei familiari durante le ultime ore di vita.

Criteri terapeutici

Questa fase mette in crisi familiari ed operatori, chiunque non abbia avviato un confronto con i sentimenti che la morte evoca, con i limiti del proprio ruolo, con il senso di impotenza di assistere una persona disperata o indifferente.

ãvisitare i malati vuol dire che noi ce ne andremo, a volte, senza aver visto un ritorno di serenità: accetteremo la nostra temporanea sconfitta e non obbligheremo il malato alla commedia, per lasciarci credere che sta meglio·".

Permettere al malato di comunicare anche le sue angosce più disperate significa, indirettamente, mostrargli che il dolore, la sofferenza, il senso di solitudine, possono essere condivisi e sopportati.
Il passaggio dalla negazione alla coscienza della morte inevitabilmente implica l'atteggiamento introspettivo e i contenuti della depressione.
Le speranze e gli incoraggiamenti irrealistici, più che un aiuto al morente, rappresentano un modo per difendere se stessi dal confronto con la sofferenza.

II- LA FAMIGLIA

La malattia grave e la morte di una persona cara rappresentano le esperienze più drammatiche e stressanti nella vita di una persona.
Il familiare si trova nella difficile condizione di gestire la propria sofferenza, ridistribuire ruoli e funzioni familiari, nello stesso tempo sostenere il proprio congiunto, garantirgli un'assistenza continua e cominciare a prepararsi al lutto.
Le strategie utilizzate dai familiari per fronteggiare queste situazioni, sono le stesse, in qualche modo, a cui si è fatto riferimento a proposito del morente, anche se possono esprimersi in comportamenti e modalità del tutto specifiche. Un esempio può essere l'esagerato attivismo che, effetto dei sentimenti di angoscia e ansia provati dal parente, può manifestarsi in vari modi:
- nel darsi da fare, in modo esasperante, per distrarre il morente e prendersi cura di lui;
- nella ricerca frenetica di informazioni mediche per scoprire qualche cavillo o inezia che metta in discussione la prognosi infausta e rinforzi la speranza che ãil caso" del proprio congiunto rappresenti un'eccezione.
L'iperattività nei confronti del morente si confronta, in genere, con la tendenza a trascurare tutti gli altri interessi: il lavoro, i figli, la casa· con le drammatiche conseguenze che questo comporta a livello economico e relazionale.
L'iperattività può essere una conseguenza del tentativo, da parte del parente, di evitare il confronto diretto con i sentimenti e i pensieri angoscianti generati dalla paura di perdere la persona amata.
Nel tentativo di difendere il morente dalla dolorosa consapevolezza della sua condizione, all'interno della famiglia possono svilupparsi forme distorte di comunicazione, che hanno l'effetto di ampliare ed intensificare l'angoscia, la sofferenza e il senso di solitudine, sia nel morente che negli stessi familiari. Un esempio, abbastanza tipico, di interazione contraddittoria e confusa è stata definita ãcospirazione del silenzio" nel senso che, anziché parlarsi in modo leale, in un clima di comprensione e vicinanza, il familiare evita ogni riferimento all'imminenza della morte ed alla realtà della malattia.
Questa situazione apre un baratro si sfiducia e di estraneità nel momento in cui sarebbe più opportuno comunicare in modo aperto e chiaro i sentimenti reciproci, tanto da accomiatarsi amorevolmente.
La maggior parte degli autori concorda nel ritenere che il morente ed il familiare si confrontano con le stesse paure e gli stessi dolori, influenzandosi reciprocamente.
È proprio questa influenza reciproca che obbliga gli operatori a promuovere un ulteriore salto a livello concettuale: non basta recuperare il malato come persona ãintera", ma è necessario estendere il focus dell'assistenza a tutto il sistema familiare inteso come unità inscindibile.

ãla famiglia, incluso il paziente, rappresenta l'unità essenziale di cura; il fatto che sia il paziente a richiedere il nostro aiuto non deve autorizzarci ad ignorare il resto della unità sociale che è stata invasa dal cancro·è un obbligo, per noi, cercare di aiutare il familiare ed il morente a fare l'uso migliore del tempo che rimane· il periodo di cure terminali può essere un periodo di crescita e preparazione reciproca oppure di fallimento e distruzione".

Il familiare che assiste un malato grave, ed in seguito affronta il lutto conseguente, vive una condizione di profondo stress psicofisico che aggrava fortemente lo stato generale di salute, aumentando la vulnerabilità a contrarre varie malattie e l'incidenza della mortalità.
M. Parker, che ha condotto gli studi più sistematici sul lutto, ha individuato una serie di fattori " rischio" che permettono di individuare quei parenti più vulnerabili a sviluppare un lutto patologico. Tra questi, quelli che più pregiudicano la risoluzione del lutto, sono:
- la condizione di dipendenza economica e sociale del morente;
- la condizione di dipendenza psicologica (come può essere la condizione di chi non ha interessi propri al di fuori della famiglia);
- la presenza di figli piccoli da accudire;
- l'assenza di sostegni sociali o l'appartenenza a famiglie che scoraggiano apertamente l'espressione delle emozioni e del dolore;
- la presenza di forti sentimenti di colpa e di autoaccusa;
- la presenza di sentimenti di rabbia ed ostilità nei confronti del morente, sia durante la malattia che dopo la morte.
Tutte queste informazioni possono essere raccolte al momento del ricovero del paziente in ospedale. Una volta individuato il familiare più vulnerabile, sarà opportuno offrire il sostegno necessario affinché, nel corso della malattia, il parente possa prendere coscienza dell'inevitabilità della morte e ãprepararsi" al lutto.
Un atteggiamento consapevole permette di vivere i giorni che precedono la morte come un tempo prezioso e positivo, pieno di significato.

a) Il lutto

Con il termine lutto si indica una vasta gamma di processi psicologici avviati dalla perdita di una persona cara.
Dal punto di vista psicologico, la perdita di una persona amata è un'esperienza fortemente traumatica in quanto può deviare e alterare inevitabilmente lo sviluppo affettivo di un individuo.
Appare pertanto evidente l'importanza di continuare ad assistere la famiglia anche dopo la morte del malato.

b) Il lutto anticipatorio

Molti autori hanno osservato che l'elaborazione della perdita può cominciare già al momento della diagnosi e prendere una forma quasi definitiva, tanto da subire pochi cambiamenti in seguito, sin dalle primissime settimane.
La comunicazione della diagnosi può determinare nel familiare le stesse reazioni cognitive ed emozionali descritte a proposito del morente.
Il familiare può lamentare sensazioni di stordimento e di impotenza, associate ad un senso di irrealtà.
Alcuni si comportano in modo automatico, come se niente fosse accaduto, anche se descrivono sensazioni di tensione e di apprensione. Altri si sentono pervasi da violenti attacchi di panico e di rabbia rivolta soprattutto contro il medico che ha formulato la diagnosi. Altri ancora sembrano completamente distaccati, come se ogni pensiero fosse bloccato.
Dopo qualche ora o qualche giorno, in genere, l'atteggiamento di rifiuto può evolvere verso quello di incredulità, pur mantenendo la tendenza, più o meno consapevole, a negare la diagnosi o la prognosi.
Come è stato sottolineato per le strategie difensive utilizzate dal morente, l'esclusione parziale delle informazioni sulla realtà della malattia riesce a bloccare l'effetto del dolore acuto, risultando di grande aiuto. Se invece, l'esclusione è totale, come purtroppo accade nella maggior parte dei casi, l'accettazione della realtà sarà compromessa, tanto da spingere il familiare a contrapporsi ai programmi terapeutici proposti e considerare l'idea di richiedere nuove consultazioni. È questo, solitamente, l'atteggiamento tipico che favorisce i ãviaggi della speranza". Il familiare, che nega la gravità della malattia, tenderà a richiedere continue consultazioni diagnostiche alla ricerca disperata di specialisti che possano confermare le sue speranze. Un'altra tendenza, espressione dello stesso atteggiamento, è quella di sottoporre il morente alle terapie più svariate ed ai ãprogrammi più ãmiracolosi" per scongiurare la morte.
I processi psicologici del familiare possono sovrapporsi a quelli del malato, oppure interferire e bloccare l'evoluzione psicologica del morente.
Con il progredire della malattia, le speranze illusorie e la collera possono, comunque svanire e, gradualmente, la realtà della morte può essere ammessa ed accettata.
Il lutto anticipatorio può avere un diverso andamento in base al tipo di legame che si ha con il morente. È stato osservato che la morte del coniuge è, solitamente associata ad una elaborazione soltanto parziale della perdita, cosicché quando la morte sopraggiunge viene, di fatto, vissuta come traumatica.
I processi di elaborazione, osservati nei genitori di bambini con malattie a prognosi infauste, sembrano, in genere, spingere più oltre.
In entrambi i casi, sembra che, se la malattia ha un decorso lungo e penoso, il familiare può arrivare a desiderare la morte del proprio congiunto. Il desiderio di morte, a differenza di quello che può apparire, rappresenta l'estremo atto d'amore per il morente, in quanto esprime l'esigenza di volergli risparmiare una sofferenza, vissuta come inutile e senza scopo.

Obiettivi

1. Coinvolgere la famiglia nell'assistenza al morente.
2. Rispettare la gerarchia proposta dalla famiglia.
3. Individuare il familiare leader nell'assistenza per coinvolgerlo e responsabilizzarlo sui programmi terapeutici.
4. Chiarire la gravità e l'irreversibilità della prognosi.
5. Chiarire le difficoltà assistenziali e comunicative, che insorgono con la condizione di malattia.
6. Mostrare comprensione e solidarietà per le emozioni dei familiari.
7. Riconoscere che tutte le persone coinvolte nella malattia utilizzeranno le strategie difensive per graduare l'impatto della morte.
8. Sostenere il familiare nella scelta di comunicare in modo leale e chiaro con il malato.
9. Rassicurare la famiglia che potrà contare sul sostegno dello staff anche dopo la morte.

Criteri terapeutici

È opportuno considerare che il familiare, come il malato, vive il disagio di gestire la disorganizzazione psicologica e sociale imposta dalla malattia. Un atteggiamento di comprensione e solidarietà può favorire un'alleanza terapeutica tra familiare e staff curante e permette di utilizzare al meglio le risorse affettive del parente.
Con la malattia si possono acuire difficoltà comunicative, già presenti, che potrebbero compromettere definitivamente il rapporto con il malato. Perciò si dovrà cercare di favorire quella vicinanza affettiva indispensabile per migliorare la relazione comunicativa: un rapporto intimo e affettuoso o distante e ostile favorirà, dopo la morte, ricordi consolanti o rimpianti angoscianti.
Un atteggiamento empatico e rispettoso permetterà all'operatore di individuare anche i bisogni del parente, tanto da rispondere con il tipo di aiuto di cui necessita.
La relazione di aiuto alla famiglia, che include un morente, rappresenta una delle forme più complesse di terapia. La metodologia che caratterizza la relazione di aiuto è così specificata e aderente alla persona a cui è rivolta, che mal si presta a descrizioni generali.
La comunicazione non verbale occupa un ruolo centrale: in un momento di profonda disperazione, può essere più espressivo ãprendere la mano", oppure ãmettere un braccio intorno alla spalla" per comunicare la nostra comprensione e rassicurare sulla nostra vicinanza. Opportuni training possono abilitare ad acuire la sensibilità per le emozioni dei familiari del morente, tanto da favorire risposte e comportamenti più efficaci.
La famiglia che ha perpetuato l'occultamento della verità avrà bisogno di essere sostenuta nella decisione di chiarire la comunicazione con il morente. È importante, però, cercare di capire le ragioni e le motivazioni che hanno spinto i familiari a scegliere l'atteggiamento di negazione della realtà. All'inizio della malattia può essere stato naturale reagire con la negazione, ma nella fase terminale della malattia, continuare a persistere rigidamente in questo comportamento, sarebbe un modo per costringere il morente ad affrontare in solitudine la consapevolezza della sua morte.
Comunicare in modo chiaro con il morente non implica il dire tutta la verità, né mentire completamente, ma comunicare quelle ãverità" che il malato può tollerare. Se si è attenti e sensibili, si potrà intravedere quando il paziente è disposto a sapere di più sulla sua condizione. Questa consapevolezza non potrà sollevare il malato, ma permetterà a lui e alla sua famiglia di vivere il tempo che rimane più intensamente.

c) Gli stadi del lutto

L'osservazione delle reazioni alla perdita, mostra un andamento caratteristico che è stato descritto da molti autori, lungo fasi successive.
Sono state differenziate quattro fasi tipiche, dalla notizia della morte alla consapevolezza piena della perdita subita. Le emozioni e gli atteggiamenti più caratteristici sono stati così evidenziati: stordimento, ricerca e struggimento, disorganizzazione e disperazione, riorganizzazione.
Le fasi non sono distinte rigidamente, nel senso che la stessa persona può presentare un'oscillazione in avanti o indietro.

Fase di stordimento: L'incapacità ad accettare la notizia della morte avvenuta e accompagnata da sensazioni di confusione e irrealtà. Si osserva un'altissima variabilità individuale nel corso del passare delle ore.

Fase di ricerca e struggimento: dopo qualche ora o qualche giorno, si manifesta, anche se in modo intermittente, la consapevolezza della perdita, che è accompagnata da sentimenti di profonda tristezza, angoscia, pianto, agitazione, irrequietezza, insonnia. In questa fase sono del tutto caratteristiche le sensazioni della presenza reale del defunto e il pensiero fisso su di lui. Per esempio: la vedova può avere la sensazione costante di sentire ãil passo" del marito defunto, o addirittura udire la sua voce, il suo modo di fischiettare o di parlare. Sono delle sensazioni molto vivide e intense, tanto da far sussultare e verificare la presenza stessa.
C'è l'impossibilità di credere che la morte sia veramente avvenuta ed una viva speranza che tutto ritorni come prima. Un altro elemento caratteristico di questa fase è la collera, che va intesa come una componente comprensibile dello sforzo, anche se infruttuoso, di rivolgersi al defunto come per riallacciare il legame che è stato infranto.
Un'anziana vedova, sola senza altri parenti, inveiva ed imprecava contro il marito perché, morendo, l'aveva abbandonata.
Di per sé la presenza della collera non comporta una prognosi infausta, a livello psicologico. Se però persiste oltre le prime settimane, esprime un adattamento patologico del lutto.

Fase di disorganizzazione e disperazione-riorganizzazione: La piena consapevolezza della morte comporta inevitabilmente il passaggio per uno stadio di profonda sofferenza e solitudine.
Per arrivare a ritrovare un nuovo equilibrio è necessario disfarsi dei precedenti modelli che hanno guidato la vita assieme al congiunto defunto.

La vera risoluzione del lutto comporta una revisione dei precedenti schemi interni sulla base dei cambiamenti avvenuti nella situazione esistenziale attuale.
Un vedovo non è più un marito, non può più pensare in termini di "noi", ma deve riorganizzarsi sulla solitudine della nuova condizione. Magari imparare a cucinare, a rassettare la casa· a riprendere amicizie e abitudini abbandonate da tempo.
Trovarsi nuovi interessi, scoprire nuove motivazioni ed eventualmente ristabilire nuovi rapporti affettivi. Verso la fine del primo anno quasi tutti riescono a distinguere tra sentimenti, pensieri e modelli di comportamento non appropriati e modalità che possono essere conservate ulteriormente. È comprensibile che per molti vedovi è proprio l'intenzione di mantenere sentimenti di attaccamento al coniuge morto che garantisce la continuità del proprio senso d'identità, consentendo loro di riorganizzare la propria vita secondo programmi significativi.
Per esempio: una vedova vissuta dedicando la propria esistenza alla vita familiare, che ha costruito tutta la sua identità sull'essere moglie, non potrà rinunciare all'immagine di vedova senza perdere la sua stessa integrità personale.

d) Varianti patologiche dell'elaborazione del lutto

Le manifestazioni più estreme di patologia del lutto riguardano soprattutto la capacità del familiare di stabilire e mantenere rapporti affettivi d'amore.
Si può parlare di lutto cronico nel caso in cui le reazioni alla perdita siano insolitamente intense e prolungate. Nella maggior parte dei casi persistono il rancore, la collera e gli autorimproveri, mentre il dolore, la tristezza e la depressione sono quasi assenti. Finchè sussistono queste reazioni la persona non è in grado di far fronte a progetti futuri per la propria vita, e con il tempo si possono manifestare reazioni dichiaratamente psicopatologiche (depressione, alcolismo, fobie..)
L'altra variante è caratterizzata dall'assenza di lutto conscio, per cui la vita del soggetto non subisce alcuna trasformazione, è ferma all'organizzazione che caratterizzava la vita precedente alla morte, ed è frequente che, in modo inaspettato, si presentino in più svariati disturbi fisici e psichici.
I criteri che permettono di differenziare un'elaborazione sana del lutto da forme patologiche sono soprattutto la durata, l'intensità e la rigidità con cui certe reazioni si stabiliscono.

e) Funzioni del rito funebre

In alcune società il funerale rappresenta la cerimonia sociale più importante e più imponente come numero di partecipanti e come durata.

"il suo oggetto manifesto è il morto, ma è per coloro che restano·che in realtà viene celebrato il rituale".

Il rito ha un valore consultorio ed espressivo per chi rimane, ed inoltre favorisce la coesione della comunità attorno ai familiari del defunto.
Nonostante i modelli culturali differiscano molto nell'ampiezza e nella durata, si possono individuare una serie di funzioni sociali e psicologiche del rituale funebre:
- aiuta a prendere coscienza della realtà della perdita, fornisce l'occasione di mostrare pubblicamente i propri sentimenti, definendo i tempi e la durata appropriata del lutto;
- permette, agli altri membri della comunità, di tributare, nei modi prescritti, un saluto al defunto;
- offre l'occasione al parente di accomiatarsi dal defunto, mostrando l'importanza del proprio legame e la gratitudine attraverso la cura particolare del cerimoniale, delle preghiere e del seppellimento;
- prescrive il periodo di tempo oltre il quale il lutto deve avere termine;
- rinforza i rapporti di parentela e un senso rinnovato di appartenenza alla comunità sociale.
Da queste brevi e sommarie considerazioni è facile rilevare che il rituale funebre risponde a tutte le esigenze psicologiche ed emozionali che caratterizzano la condizione di chi subisce una grave perdita.
Nella nostra cultura il lutto, come insieme di riti, ha perso purtroppo consistenza e significato. Così accade, sempre più frequentemente, che si consumi, in assenza di qualsiasi forma sociale di sostegno, e la solitudine del familiare si attua in forma privata ed isolata.
Il congiunto, stremato dopo la lunga assistenza, si ritrova soltanto con le sue risorse psicologiche e sociali ad affrontare, in piena solitudine, la tragedia della perdita. E non basta. I valori attuali prescrivono, come adeguato, un lutto che non duri più di una settimana: è questo il periodo "giusto", per il mondo del lavoro, da dedicare al pianto, ed alla elaborazione della perdita, per essere pronti ed efficienti a riprendere tutte le proprie attività. Così si consuma, senza tragedia, la morte priva di senso!

Obiettivi

1. Facilitare l'espressione dei sentimenti del cordoglio.
2. Rassicurare circa l'adeguatezza e l'opportunità delle manifestazioni personali del cordoglio.
3. Mostrare di non temere le espressioni di tristezza e di disperazione, né risentirsi per le manifestazioni di collera.
4. Impedire l'isolamento della persona in lutto.
5. Mostrare solidarietà e comprensione attraverso un atteggiamento di ascolto autentico.

Criteri terapeutici

Giova alla famiglia sapere che l'interesse per il suo problema e per quello del malato non si è esaurito con la morte.
Una vicinanza discreta nella fase del lutto deve consentire l'espressione libera di tutti i sentimenti associati alla perdita.
Il vero conforto nasce dalla consapevolezza che il dolore e la tristezza espressi sono incolmabili e incurabili e, pertanto, le facili rassicurazioni possono sortire l'effetto di bloccare ogni espressione, chiudendo, inevitabilmente, la possibilità di un conforto sincero.
Il senso di solitudine che segue la perdita di una persona cara, difficilmente trova conforto e sollievo; però, superando i sentimenti di ingratitudine e indifferenza, la presenza discreta e sensibile dell'operatore può rappresentare una risorsa insostituibile.
È consigliabile far visita ai familiari a distanza di circa due settimane dalla morte. In questo periodo, è possibile che incominci a diluirsi lo shock. Il familiare potrebbe avere bisogno di esprimere liberamente le sue emozioni, ma la paura di far preoccupare gli altri parenti, o l'idea di creare disagio agli amici, mostrandosi in lacrime, solitamente blocca ogni manifestazione del dolore. L'aiuto, in questo caso, dovrebbe favorire la libera espressione e la graduale accettazione della perdita. Nel caso in cui, invece, l'intensità e la frequenza del cordoglio sembra non riuscire a ridimensionarsi, è più opportuno aiutare il parente a "bloccare" più che esprimere il dolore, permettendo di cercare nuove opportunità per il suo sviluppo personale. Il cordoglio può essere vissuto come il prezzo da pagare per l'amore perso, e così il familiare tenderà ad evitare di "rischiare" di nuovo, riallacciando altri legami affettivi. L'esperienza del lutto ha, senza dubbio, un effetto dilaniante nella vita di una persona; può ridurre una identità in brandelli ma permette, allo stesso tempo, un cammino di crescita personale inesauribile. Come tutte le esperienze dolorose, favorisce il ritorno a se stessi, l'esplorazione dei meandri più oscuri della conoscenza di sé, modalità che rappresentano le fonti più grandi della maturità, della ricchezza personale.
Per l'operatore assistenziale, l'aiuto nel corso del lutto può rappresentare una importante esperienza, sia professionale che personale, per riappropriarsi del significato globale della vita e sentire come il dolore acuto della perdita rappresenti una parte accettabile dell'esistenza.

III - LO STAFF ASSISTENZIALE

In questi ultimi anni, il ruolo terapeutico dell'infermiere, nell'assistenza al morente, è stato ampiamente rivalutato, alla luce del particolare tipo di relazione che si stabilisce nel corso di tutta la malattia.

"il medico prepara il domani dei suoi pazienti, guarendoli oppure no; il paramedico vive l'oggi con il malato, e la vita del malato oncologico è fatta soprattutto di tanti oggi che saranno più o meno accettabili per lui anche a seconda di come si sentirà aiutato ed incoraggiato nell'affrontarli".

È proprio in questo quotidiano incontrarsi, che il morente può cogliere il valore della sua esistenza e il senso della sua morte; e l'infermiere può sperimentare la consistenza o l'insicurezza del suo modo di essere professionista e persona.
Di fatto, però, molte ricerche hanno dimostrato che "l'infermiera media, possiede ben pochi dei requisiti essenziali per stabilire un valido rapporto".
Infatti, la malattia inguaribile e la morte rappresentano una condizione di crisi anche per lo staff assistenziale che è obbligato a confrontarsi con il limite reale del suo ruolo e della sua conoscenza.
Vengono capovolti i presupposti che hanno guidato l'iter formativo di tutti gli operatori: salvaguardare, favorire e prolungare la vita.
E l'infermiere, come tutte le altre figure assistenziali, si ritrova completamente solo, senza strumenti concettuali e tecnici, con a disposizione soltanto la sua, misera o ricca, esperienza personale, ad affrontare la complessa tragedia della morte.
Come è stato rivelato da molti autori, questo comporta un alto costo in termini di stress personale.
È più che mai importante riconoscere che l'assistenza al morente oltrepassa i confini di molti ruoli professionali. Il senso di inadeguatezza, smarrimento e disagio che ne deriva, va colmato da un opportuno lavoro di èquipe finalizzato:
- all'appropriazione di un approccio globale ed interdisciplinare all'assistenza, capace di cogliere tutti i bisogni specifici del morente;
- alla consapevolezza dell'importanza di gestire, più liberamente, le problematiche psicologiche personali che la morte evoca;
- alla gestione di uno stile di relazione, cioè un modo di essere e di porsi, che accolga adeguatamente i bisogni che il morente esprime.
Il rapporto con
"il morente non deve essere "privatizzato" da un singolo operatore, ma deve essere di tutta una équipe. Certo ci sono differenze di ruolo e di responsabilità, e un certo determinato paziente può preferire rivolgersi ad un certo operatore; ma ci deve essere un'atmosfera, un clima, una cultura di reparto che permette, alimenta, sostiene questi incontri più personali; e questa atmosfera non può passare che attraverso l'elaborazione dei vissuti dell'équipe".

L'équipe deve contare sulla costante possibilità di un sostegno psicologico per elaborare l'impatto emotivo della morte su ognuno, deve strutturare uno spazio di riflessione e di formazione sempre più specifica, ed organizzare un contesto per affrontare i problemi interni dello staff curante, per prendere decisioni pertinenti ad ogni malato.
I gruppi di discussione, con lo psicologo, rappresentano la forma organizzativa ideale per garantirsi uno spazio di formazione permanente, di sostegno personale, di decisione e verifica della prassi assistenziale.

a) Profondità di campo

Gli studi sulla percezione e sulla comunicazione umana hanno ribadito la centralità e l'influenza dei fattori cognitivi (l'insieme delle teorie, delle convinzioni, delle esperienze) di chi eroga una prestazione, nel fare forma alla realtà percepita, attraverso la selezione "automatica" degli elementi che saranno messi a fuoco, esaminati o trascurati.

"La costruzione soggettiva di una situazione particolare può essere paragonata al modo in cui si scatta una fotografia o si riprende un film... le specifiche caratteristiche dell'apparecchiatura (obiettivo, messa a fuoco, velocità) hanno un'influenza enorme sul prodotto finale... Ci possono essere sfocamento e perdita di importanti dettagli...l'uso di filtri di influenza ulteriormente il risalto e il colore di particolari elementi...Inoltre filmare una scena non è un processo passivo. Il ruolo del cameramen è fondamentale per selezionare particolari strategie: campo, primo piano, sfondo... Tutto questo ha un'influenza decisiva su ciò che si vede".

Analogamente, quando concettualizziamo una situazione, il nostro "apparato cognitivo" influenza il modo di guardare e vedere la realtà.
Un esempio: un impiegato, con una bassa autostima e convinzioni negative su di sé, interpreterà facilmente il comportamento aggressivo e distaccato del suo superiore, che sta vivendo una importante crisi coniugale, come la prova delle sue convinzioni: essere antipatico e inadeguato per il suo superiore.
È importante che ogni operatore, impiegato nell'assistenza a persone che vivono situazioni tragiche e irrisolvibili, espliciti a se stesso, con chiarezza, le convinzioni, i modelli e le motivazioni che guidano e orientano il suo intervento assistenziale.
Non serve essere guidati da motivazioni e valori nobili e altisonanti; è essenziale essere trasparenti con se stessi, per essere più liberi nel rapporto con gli altri; tanto più che il confronto con la tragedia della morte trasforma inevitabilmente ogni valore astratto in mistificazione.
È inutile anche rielaborare le esperienze personali, sulla morte e il morire, e riappropriarsi di un atteggiamento culturale che restituisca valore alla vita e alla morte. Soltanto così l'operatore potrà proporsi al morente come individuo intero, capace di gestire l'impatto con le emozioni più drammatiche e penose a cui il suo ruolo professionale non può sottrarsi.

b) L'esperienza delle "piccole" morti

Un modo per recuperare il significato della morte, da parte dell'operatore assistenziale, è confrontarsi con i limiti del proprio agire professionale, con l'insuccesso terapeutico, con le esperienze di separazione, di perdita e di lutto.

"la vita di ognuno di noi è costellata di "piccole morti" o morti parziali. Quante volte siamo chiamati a dire addio a delle cose, a lasciar cadere progetti, a separarci da tante esperienze, da persone e da eventi che non torneranno più. Sono morti parziali che, se integrate, ci preparano alla separazione finale. L'esperienza più forte è la perdita di una persona cara. S. Agostino nelle sue Confessioni, dice di aver vissuto la morte di un amico come se fosse stata la sua morte. Non era più lui: una parte di lui si era lacerata".
La depressione, in quanto esperienza emotiva associata alla perdita e al senso di inadeguatezza personale, rappresenta un'opportunità reale di approssimarsi al vissuto di morte.

"la depressione, come evento che riduce l'onnipotenza, ci fa capire che siamo esseri finiti, ci fa vivere un'esperienza di limitatezza che è come sentire la morte dentro... e nella misura in cui costituiscono una interiorizzazione dei limiti della nostra onnipotenza, le esperienze depressive rappresentano, in definitiva, una sorta di propedeutica alla morte".

Poiché non ci è possibile vivere la nostra morte, possiamo tentare di recuperalra, reintegrando tutte quelle esperienze dolorose, compresa la sofferenza e l'angoscia che pervade, che rappresentano un'opportunità unica di crescita personale e di integrazione dei valori fondamentali dell'esistenza.
A livello professionale ciò rappresenterà la base da cui partire per stabilire una relazione di vicinanza empatica al morente, unica garanzia per comprendere la condizione esistenziale del malato e la validità del proprio ruolo.

"è stato accertato sperimentalmente che l'esperienza della morte di persone care può aiutare nell'accostamento dei moribondi...mi servo di un'immagine cui faccio ricorso frequentemente nei miei corsi e nei miei scritti: l'immagine del guaritore ferito. Divento capace di aiutare gli altri nella misura in cui divento capace di vivere anch'io la ferita della morte, di tante morti parziali, di perdite ricorrenti, che integro alla mia persona. Il vivere profondamente un'esperienza di perdita, di distacco, ecc. suscita in me attitudine alla comprensione e di partecipazione che mi abilitano a una relazione di aiuto".
Il ricorso e la riappropriazione delle esperienze personali dolorose rappresentano, per l'operatore, uno strumento concettuale insostituibile per mettere a fuoco gli elementi caratteristici della sofferenza del morente e dei suoi familiari.

c) la cultura attuale della morte

L'agire professionale è anche fortemente condizionato dall'atteggiamento culturale dominante.
P. Aries, cultore della sociologia della morte, afferma che nella nostra società, dominata dall'incertezza e dalla paura per il crollo dei valori morali, non c'è più posto per la morte; e definisce questo atteggiamento "morte rovesciata".
La morte è diventata un nuovo tabù; è considerata sporca, vergognosa, da nascondere alla vista degli altri, da eliminare o privatizzare.
Un'espressione di questo atteggiamento è, per esempio, l'imbarazzo e il disagio che si prova di fronte ai morenti: si è perso il riferimento di tutti quei rituali e quelle tradizioni che accompagnavano le tappe essenziali della vita; parallelamente si è sviluppato il mito dell'autocontrollo che limita l'espressione delle forti emozioni associate al dolore.

"Spesso non si sa che dire: le frasi d'uso per tali situazioni sono relativamente scarse ed un sentimento di imbarazzo impedisce di parlare... per il moribondo questa può essere un'esperienza amarissima, ancora vivo è già abbandonato...gli uomini che sono a contatto con i moribondi non sono più in grado di confortarlo, con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza. Fanno fatica a stringere la mano di una persona che muore perché capisca che né devozione né protezione sono venute meno...in tal modo diventa difficile parlare spontaneamente con il morente, anche se si è pienamente consapevoli di quanto egli ne avrebbe bisogno".
Tra la vita e la morte è stata inserita l'istituzione del progresso: il morire è dato in gestione al medico e alle istituzioni sanitarie, che, però, sono concepite per massimizzare il rendimento e le prestazioni, e mal si adattano alle esigenze del malato in genere, tanto meno ai bisogni del morente.
Paradossalmente i professionisti deputati alla salute sono impreparati al confronto con la morte e, per difendersi, non possono che rimuovere, negare e minimizzare la morte.
Ne è espressione il linguaggio sanitario che esclude ogni riferimento esplicito alla morte, utilizzando, per esempio, terminologie asettiche, quali: pazienti terminali o exitus, per riferirsi ai morenti e alla morte.
Una tendenza alternativa che favorisce l'appropriazione di questa realtà è la visione della morte come "mistero".

"quando dico mistero intendo qualcosa che non sta fuori di me, qualcosa che mi coinvolge, qualcosa che non posso evitare, ma che devo integrare".

Il recupero culturale della morte passa attraverso la gestione del senso di incontrollabilità e di ineluttabilità della morte.
Per far questo, occorre avviare una revisione critica del modello di uomo proposto dagli effimeri valori dominanti.
Restituire spessore e senso alla malattia, alla sofferenza, al dolore e alla morte, recuperare il valore e il significato della vita, individuare "il fine ultimo dell'uomo", sono tutte operazioni di grande importanza spirituale e morale, essenziali per problematizzare e rinnovare il proprio essere professionista e persona.

d) La comunicazione interpersonale

Uno spazio particolare va riservato all'analisi della comunicazione, che veicola tutte le forme di rapporto tra operatore e paziente: dallo scambiarsi del saluto, al somministrare farmaci, al comunicare la diagnosi... a "parlare delle condizioni atmosferiche".
La comunicazione non è semplicemente un modo per trasmettere informazioni, come può essere leggere un trafiletto su un giornale.
È un processo che include, tra le righe, il "commento" all'informazione stessa e il passaggio di una serie di "regole" che servono a connotare il tipo di "relazione" e a stabilire le modalità del rapporto con la persona alla quale si sta comunicando.
Per esempio: fin dal primo incontro, due persone definiscono il "senso" del loro rapporto senza ricorrere a chiare esplicitazioni verbali per dirigere i propri comportamenti.
Un esempio: in una seduta di psicoterapia, un marito ricordava che la prima definizione affettiva del rapporto con la moglie era consistita in una iniziativa di lui (ti voglio bene) cui lei aveva risposto di rimessa ("anch'io"). Secondo il marito questo scambio iniziale poteva riassumere benissimo tutto l'andamento affettivo e sessuale di dieci anni di vita insieme. Qualsiasi iniziativa nelle decisioni affettive, familiari e genitoriali, partivano da lui.
Questo breve esempio, al di là delle considerazioni cliniche, illustra come le regole implicite in una comunicazione, anche se brevissima, possono influenzare e guidare un rapporto anche per molti anni.
Analizziamo brevemente i processi di base utilizzati nella comunicazione per la trasmissione dell'informazione:
- la comunicazione verbale: che consente una definizione più accurata dei dati e il passaggio diretto dell'informazione, attraverso le funzioni descrittive del linguaggio;
- la comunicazione non verbale: che riguarda gli aspetti cinestesici (posture, atteggiamenti...) o paralinguistici (mimica facciale, gestuale, sguardo, inflessione della voce) che assolvono a funzioni generali:
a) segnalare le emozioni: sorridere, piangere..., sono espressioni delle emozioni di base.
"lo sfuggire sguardo diretto, il giocare nervosamente con la penna, l'evitare la stanza di un determinato ammalato, lo sguardo furtivo tra i medici, o medici e familiari al letto del paziente, sono messaggi di gran lunga più espliciti di qualsiasi parola pronunciata apertamente".
b) rinforzare la comunicazione verbale.

La comunicazione non verbale, in genere, è correlata con quella verbale, cosicchè entrambe si presentano come un insieme unitario ed articolato.
Per esempio: una persona che piange può commentare verbalmente il suo comportamento, spiegando che è triste o non si sente bene...
Può succedere invece che le sue forme di comunicazione non siano perfettamente in linea, come nel caso di una persona con il volto sorridente che dichiara di essere triste; può succedere che non venga presa molto sul serio.
Tutto questo può accadere perché la comunicazione verbale è direttamente sotto il controllo dell'attenzione e quella non verbale lo è meno. Siamo inconsapevoli del gesticolare o della mimica che accompagna i nostri discorsi, tanto più se siamo concentrati su quello che stiamo dicendo.
Il messaggio trasmesso attraverso i canali non verbali può disconfermare completamente quello verbale.

"si possono dire parole di speranza senza guardare mai negli occhi, oppure rassicurare sulla guarigione e contemporaneamente ridimensionare ogni progetto per il fututro...".
Qualsiasi forma di comportamento che in un dato contesto culturale ha una funzione espressiva, rientra nella comunicazione non verbale.
Mandare dei fiori ad una ragazza è un messaggio, l'assenza di risposta da parte di lei costituisce un altro messaggio. La comunicazione è, quindi, organizzata simultaneamente a vari livelli di complessità interagenti tra loro. Ne risulta che la comprensione del messaggio può essere spesso confusa, compromessa e alterata.
Un errore che si osserva frequentemente tra gli operatori assistenziali è ciò che viene definita "identificazione proiettiva": se si è coinvolti nella relazione con un paziente, può succedere che si tenderà a "trasferire", ad interpretare il comportamento di un malato sulla scorta dei sentimenti o dei pensieri che si proverebbero se ci si trovasse in una situazione analoga. Il silenzio di un paziente disperato può essere interpretato erroneamente come espressione di una ostilità nei confronti dei "sani".
Un dialogo spontaneo ed aperto nasce dal quotidiano incontrarsi in un clima di ascolto, solidarietà e rispetto, fuori da qualsiasi formula rigida e preconfezionata.
Un atteggiamento che favorisce una comprensione adeguata dei vissuti e dei bisogni di un malato, evitando pericolose identificazioni, è quello empatico : esso consiste nell'adottare la prospettiva e il punto di vista dell'altro.

e) Elementi di una relazione di aiuto

Una delle cause di maggiore frustrazione per gli operatori assistenziali è di non saper gestire adeguatamente il rapporto con il morente: molti hanno paura di farsi coinvolgere troppo, altri ritengono che sia utile dedicare tempo a pazienti destinati a morire, se c'è bisogno di loro per malati che possono, invece, guarire.
In genere, ognuno vorrebbe essere di aiuto, ma non si sa come e cosa fare .
È opportuno raggiungere un equilibrio tra l'indifferenza e l'eccessivo coinvolgimento: l'empatia rappresenta l'atteggiamento che permette di "mettersi al posto dell'altro, di vedere il mondo come lo vede lui".

"l'empatia è la capacità di lasciarsi coinvolgere nel mondo emozionale altrui e di prenderlo in considerazione; la persona empatica ... ha la singolare dote della comprensione: comprendere una persona significa mettersi nel suo angolo visuale per capire le cose come le capisce lui, adottare i suoi schemi mentali, ragionare partendo dalle sue premesse... comprendere una persona non significa condividere le sue idee o approvare le sue decisioni, ma rendersi conto che, nel suo quadro mentale, esse hanno una loro coerenza e una loro oggettività".

La necessità di promuovere una competenza relazionale nel personale assistenziale trova una risposta efficace nell'approccio definito "relazione d'aiuto".

"la relazione d'aiuto potrebbe essere vista come l'atto di promuovere in una persona, che si è affidata alla nostra professionalità, un migliore adattamento alla situazione che sta vivendo, per metterla in grado di superare le difficoltà e recuperare la salute o almeno quel grado di benessere psicofisico che è possibile".

La relazione di aiuto si rifà alla tradizione umanistica in psicologia, ed in particolare al modello Carl Rogers.
Più che un esercizio di tecniche, rappresenta uno stile di relazione, un modo di essere caratterizzato da atteggiamenti positivi stabili: accoglienza, comprensione, ascolto attivo ed autenticità.
L'accoglienza rappresenta la prima forma di accettazione e riconoscimento dell'individualità del malato.
Bastano gesti semplici ed immediati per evidenziare la disponibilità verso di lui e creare un clima di rispetto. Presentarsi ad un malato dicendo il proprio nome ed il ruolo che si ricopre, bussare e salutare quando si entra in una corsia...: sono espressioni che hanno abbandonato da tempo i reparti dei nostri ospedali, impegnati in rituali sempre più frettolosi e distratti. Sedersi accanto al letto del malato, ascoltarlo con attenzione, guardarlo negli occhi, sono espressioni dell'interesse e della disponibilità nei suoi confronti. Accogliere vuol dire mettere l'altro a suo agio, riceverlo con gentilezza e cortesia.
L'ascolto non è semplice sentire, è centrare l'attenzione sull'altro, per relazionarsi a lui.

"L'ascolto è la pietra d'angolo su cui si basano tutte le risposte generatrici d'aiuto, è una delle "carezze" positve maggiormente apprezzate dalla gente. Infatti, quando uno si sente ascoltato, ha la calda percezione di essere preso in considerazione e, quindi, di valere agli occhi dell'interlocutore...l'ascolto autentico non è di facile attuazione..., è un movimento attraverso cui l'individuo, uscendo da se stesso, riconosce ed afferma l'alterità di chi gli sta di fronte. Tale decentramento del soggetto implica la capacità di fare silenzio nella propria dimora interiore, sostanziata di bisogni desideri, stati emotivi. La difficoltà dell'ascolto sta molto spesso in questo: nel momento in cui si vorrebbe ascoltare l'altro che parla, ci sorprendiamo ad ascoltare noi stessi".

Anche nel malato sfiduciato, più chiuso in ostinati silenzi, è difficile che si spenga il bisogno di comunicare la propria sofferenza, di vederla accolta e partecipata.
Ascolto, rispetto, solidarietà riescono a bloccare molte resistenze e ad offrire grande sollievo ad una angosciata disperazione.
I valori e i principi proposti dalla relazione d'aiuto sono comprensibili in termini di esperienza quotidiana, armonizzabili con la visione di una vita più "umana".
L'apprendimento, però, di questo modo di relazionarsi può costruirsi lavorando direttamente e sperimentando in prima persona la filosofia di base, i contenuti e le tecniche proposte.
Ancora una volta bisognerà "fare esperienza" diretta, più che parlare di esperienza, ed i gruppi di discussione tra gli operatori, potrebbero rappresentare il contesto ideale per avviare questo tipo di formazione.

 

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